Sfida scudetto a ritmo di tango: ormai è Higuain contro Dybala

Pubblicato da Redazione
il 18 Gen 2016, 12:52
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MILANO – Sempre caro ci fu il Cono Sur, terra di attaccanti irripetibili. Ti stropicci gli occhi per le meraviglie di Gonzalo Higuain e Paulo Dybala, pensi con un sobbalzo del cuore a certi altri eroi del passato (l’immenso Diego, Sivori, Batistuta, Crespo, Milito, Tevez) e non puoi non essere grato a quel lontano brandello di pianeta, là dove il Sudamerica diventa un imbuto e si restringe fino a scomparire dall’altezza di Ushuhaia, dove finiscono la Patagonia e il mondo. Dentro quel triangolo isoscele tra due oceani, un cono di terre immense, grasse e benedette dagli dèi, eppure angustiate da sofferenze millenarie, terre calpestate da popoli massacrati o popoli ribaldi, da popoli in fuga e da popoli di conquistadores, da popoli che infine hanno migrato fin lì dall’Europa ricostruendo un’identità, dentro questo cono occupato oggi dall’Argentina e dal Cile e dall’Uruguay in un melting pot di culture di ogni parte del mondo e in un’ibridazione che non ha eguali nel pianeta, nascono e vivono e imparano a segnare decine, centinaia di calciatori. Poi si spargono nel mondo e ci insegnano come deve essere un bravo attaccante, cosa deve fare in area, come deve muoversi fuori dall’area, come si fa a buttarla dentro, sempre, in ogni modo, e farsi amare dagli aficionados.

Argentini. Tutti diversi, tutti uguali, contaminati da cento culture e mille patrimoni genetici: forse il segreto è quello. Gonzalo Higuain ha un padre calciatore, una mamma pittrice di origini basche e figlia di un celebre allenatore di pugili, un fratello calciatore pure lui; è nato a Brest in Francia, il Pipita, perché il padre giocava lì, e in fondo fino ai 21 anni è stato indeciso se giocare con la nazionale francese o quella argentina (Raymond Domenech provò a convocarlo un paio di volte), poi ha scelto l’Albiceleste e non poteva che essere così, lui argentinissimo di Buenos Aires, e agli inizi centravanti del River Plate. Paulo Dybala è della zona di Cordoba, ha origini polacche per parte di padre e condizioni iniziali più umili perché i genitori non se la passavano bene, papà Adolfo purtroppo morì presto, così il tredicenne Paulo decise di andare a vivere da solo a Cordoba per inseguire il suo sogno a forma di pallone e aiutare la famiglia, e tuttora ha il cruccio di non aver mai giocato nella serie A argentina visto che Zamparini e il Palermo lo portarono via quando “La Joya”, come lo chiamano da un po’, giocava ancora nell’Instituto di Cordoba, serie B.

Il Pipita ha 27 anni, La Joya 22. D’accordo, il calcio è un gioco di squadra ed è il collettivo che conta e mille altre noiosissime considerazioni che vi risparmiamo, ma per tutti il Napoli e la Juventus guidano il campionato anche e soprattutto grazie a loro, ai 20 gol di Higuain (in 20 partite) sui 41 complessivi del Napoli, una mostruosità statistica, e agli 11 di Dybala sui 37 della Juve. Il Pipita, destro naturale, è più centravanti, anzi, è Il Centravanti, per quella implacabilità in area, per quei movimenti preparatori e quegli smarcamenti da manuale del numero 9, per quel tiro secco e pesante come una sassata; dopo un anno di sbandamento per colpa della finale persa a Rio (se sbagli un paio di gol in una finale dei Mondiali rischi di portarti dietro il ricordo per mesi, e a Higuain è accaduto), è sbucato il miglior Pipita di sempre, e a Napoli ora ogni pensiero pazzo è lecito. La Joya, mancino puro, invece è più attaccante tout court, un po’ numero 9 ma anche numero 10, non a caso i suoi idoli sono sempre stati Riquelme e Ronaldinho; infatti è una sentenza nei calci piazzati, nel tiro da fuori in genere, nella rifinitura e anche nel tiro a rete, e nella serie di dieci vittorie consecutive della Juve c’è molto dei suoi guizzi, e anche molto della sua nuova potenza atletica, visto che appena arrivato in bianconero lo hanno irrobustito con 4-5 chili di muscoli. Erano decenni che alla Juve non coccolavano un argentino di queste proporzioni e di questo talento: non a caso il dg Marotta ha parlato di paragoni con Sivori, appunto l’ultimo eroe del Cono Sur a far godere gli juventini, ormai 50 anni fa. A Napoli invece hanno ricordi più recenti, ed è anche inutile star lì a spiegare quali.

Godiamoceli, questi prodigi argentini. Il campionato è nelle loro mani. E chissà in quanti vorrebbero essere al posto del Tata Martino, il ct dell’Argentina, che in attacco non ha l’imbarazzo della scelta, ma solo e soltanto imbarazzo. Ha Higuain e Dybala, d’accordo. Ma poi ha anche il ‘Kun’ Aguero e l”Apache’ Tevez (ogni argentino che si rispetti ha un nome di battaglia, ci mancherebbe). Ha il ‘Pocho’ Lavezzi, ha il ‘Niño’ Icardi. E ovviamente ha il più bravo del mondo, la divina Pulce, Leo Messi. Voi, chi fareste giocare tra questi sette? Lui li ruota come e finché può, con Messi titolarissimo indiscusso e gli altri intorno, anche se a dire il vero finora l’unico mai chiamato è stato Icardi, che scalpita, segna e ancora scalpita. Ma certo che si tratta di imbarazzi invidiabili, e non ditelo ad Antonio Conte che potrebbe venirgli uno stranguglione, lui che l’imbarazzo delle scelte ce l’ha fra Pellè e Zaza.  

D’altronde noi siamo italiani, loro argentini, e la differenza sta tutta lì. Di argentini in Italia ne abbiamo avuti a centinaia, e molti di loro hanno lasciato segni indelebili. Dal primo capocannoniere, Julio Libonatti nel 1928, uno dei tanti oriundi che poi fecero parte della nazionale italiana, come Enrique Guaita, campione del mondo con Pozzo nel 1934, e più avanti negli anni, come Valentin Angelillo che stabilì il record di 33 gol in 33 partite ora inseguito da Higuain, come Omar Sivori che fece delirare l’Italia e nella fattispecie juventini e napoletani, come Piedone Manfredini, come Diego Maradona l’immenso, e poi Batistuta, Crespo, l’ultimo è stato Icardi: otto volte un giocatore argentino è stato capocannoniere della serie A, e il primo fu 88 anni fa. Batigol è quello che ha segnato di più da noi: 184 gol. Poi Hernan Crespo (153), Sivori (147), Abel Balbo (117), Angelillo (98), Milito (86), Maradona (81), Julio Cruz (80), Rodrigo Palacio (72), German Denis (71). Li abbiamo amati e li amiamo, i nostri attaccanti dal Cono Sur. Anche quelli che non sono nella top ten ma ci hanno fatto palpitare, e da quando l’Italia riaprì le frontiere nel 1980 ne abbiamo visti un sacco. Hanno forse lasciato poche tracce nei nostri ricordi attaccanti come Ramon Diaz, Claudio Bertoni, Pablo Pasculli, Gustavo Dezotti, Claudio Caniggia, Claudio Lopez o il Pampa Sosa fino all’ultimo Carlitos Tevez? Tutt’altro. Ne hanno lasciate moltissime e sono eterne. Sarà perché sono argentini e tutti, o quasi tutti, hanno tracce d’Italia nel cognome, nel nome, nel sangue, nel cuore. Forse è per questo che a casa nostra si trovano così bene.

Fonte: Repubblica

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