L’ultimo viaggio dello spensierato Ernesto

07 giugno 1953, stazione di Retiro, Buenos Aires (Argentina) – L’unica parte del viaggio attraverso l’America Latina che Ernesto Guevara e Carlos Ferrer fecero in treno, fu la prima. Quel giorno d’inverno, alla stazione di Buenos Aires c’erano le famiglie di entrambi, che si erano conosciute quando i bambini erano ancora piccoli. I Guevara si erano trasferiti sulle colline di Alta Gracia, fuori Cordoba, affinché il clima desse sollievo a Ernesto, malato cronico d’asma. Il dottor Ferrer, invece, era un medico specializzato nelle vie respiratorie e originario della zona. Uno dei suoi figli, Carlos, aveva più o meno l’età di quel nuovo paziente così problematico che gli era toccato e ne sarebbe diventato il miglior amico, facendo che poi i ruoli di genitori dei Guevara e dei Ferrer si mischiassero come se tutti fossero figli di tutti. Per questo prima di partire dalla città di Buenos Aires dove i ragazzi erano venuti a studiare medicina e da dove ora uscivano in cerca d’avventura, la mamma di Ernesto si avvicinò a Carlos e gli disse: «Mi raccomando, Calica, prenditi cura di lui».

Sette giorni dopo, mentre Carlos si trovò a trascinare il corpo dell’amico per le strade polverose di La Quiaca, ripeteva: «Aspetta, cazzo, che ho promesso a tua madre di proteggerti». La sua di madre aveva visto di cosa fossero capaci gli attacchi che colpivano Ernesto durante un pomeriggio in cui era passato per la merenda ed era quasi morto sul divano. Ma Calica quella volta non c’era e aveva sempre creduto che il racconto fosse l’esagerazione di una donna apprensiva. Mano a mano che l’amico restava senza fiato, però, dovette ricredersi fino a convincersi a sua volta, come già era toccato alla madre, che sarebbe morto nei successivi minuti. Ma invece non morì. Tirò avanti con qualche grammo d’aria per tre giorni, sul letto di un albergaccio che Ferrer aveva trovato in fretta e, col primo fiato, gli disse: «Dovevi farmi una puntura d’adrenalina», la stessa medicina contro l’asma che 14 anni dopo la Cia fece sparire da tutte le farmacie della zona della Bolivia in cui si nascondeva il Comandante Che Guevara coi suoi ribelli, nei giorni in cui finì per morire davvero. Ma quello di Comandante era un nome ancora lontano per Ernesto e la Bolivia, ancora solo un paese appena un passo oltre la frontiera argentina. Il primo dei molti che quei due volevano attraversare, per andare da Alberto Granado, il tipo che guidava la Poderosa nei Diari della motocicletta.

Spensierata gioventù: Ernesto, Calica e un'amica in Bolivia (foto: gentilezza Carlos Ferrer)

Spensierata gioventù: Ernesto, Calica e un’amica in Bolivia (foto: gentilezza Carlos Ferrer)

   Un tal giorno del 1954, su una zattera nel Lago Nicaragua (Nicaragua) – Il barcaiolo aveva giustificato il prezzo leggermente sopra la media con la sua abilità nel manovrare la zattera e la conoscenza del fondale, ma la traversata tradì il suo orgoglio e la sua fortuna. Mentre la scialuppa affondava nelle acque caliginose del Lago Nicaragua, Ernesto pensava: «Quando lo viene a sapere Calica mi ammazza». Col suo bagaglio che colava a picco, infatti, c’erano anche i rullini con le foto del viaggio e forse quella che sarebbe oggi una delle immagini più usate per sdrammatizzare la figura sacra del Comandante Guevara: il Che vestito da torero. A Lima, lui e Carlos avevano trovato un alloggio consono alle loro possibilità economiche in una pensione che di solito riceveva i parenti dei moribondi ricoverati un vicino lebbrosario. Le camere davano tutte sullo stesso corridoio e non avevano neanche la porta. «Calica! Vieni che c’è un torero, porta la macchina», disse a un certo punto del pomeriggio Ernesto. L’ospite eccentrico della locanda era sceso nella capitale in compagnia del suo impresario e, dato che aveva più o meno la stessa stazza minuta dei ragazzi argentini (il più celebre dei quali arrivò a una prestanza titanica solo in seguito, grazie alla mitologia) acconsentì a che si provassero il suo barocco abbigliamento da corrida e si scattassero qualche foto. «Noooo, il toro mi ucciderà», si scoprì però a urlare subito dopo, quando vide il Che che appoggiava il suo cappello sul letto, compiendo il gesto più malaugurale in assoluto, nella stretta superstizione delle plazas de toros. «Guarda che la corrida si fa lo stesso però – precisò il manager sovrastando le risate di Guevara e soffocando le sue, mentre il suo rappresentato frignava disperato – abbiamo già preso la metà dell’ingaggio».

Alla sera, mentre si festeggiava l’orecchio che il torero era riuscito a tagliare al bravo vitello, senza che questi gli ficcasse le corna in corpo come aveva presagito con la storia del cappello sul letto, c’era più grappa Pisco che buffet. Fu esattamente questo il motivo per cui, quando il torero umiliato il pomeriggio nell’arena, fece la sua comparsa senza invito alla baldoria dell’avversario e per di più lo fece accompagnato dalla sua squadriglia di banderilleros, picadores e capeadores, non restò che rimboccarsi le maniche e fare a botte. «Qui dobbiamo difendere la territorialità», disse con ironia Ernesto a Calica, convincendolo senza ragione che la loro destrezza nel tirare di boxe sarebbe stata sufficiente ad arginare le testate che i peruviani sono soliti sferrare nelle scazzottate. Dopo, quando gli animi si calmarono, si tornò a bere Pisco e a ballare.

Vecchio amico: Calica con una foto di Ernesto e il libro che ha scritto sulla loro storia (foto: gentilezza Carlos Ferrer)

Vecchio amico: Calica con una foto di Ernesto e il libro che ha scritto sulla loro storia (foto: gentilezza Carlos Ferrer)

   Un tal giorno del 1953, Consolato Generale del Venezuela a La Paz (Bolivia) – Avevano bisogno di un visto per ogni paese. Avevano già ottenuto quello boliviano, erano sicuri che il Perù avrebbe concesso il suo, ma in quanto al Venezuela, il Venezuela era una lotteria. Con gli anni del boom petrolifero, il paese cresceva. Un bolivar valeva come un dollaro, ma non c’era forza lavoro. Arrivavi con la licenzia media e ti facevano dirigente e allora partirono in molti, tanti, che poi Caracas chiuse le frontiere. I mogani e i tappeti dell’ufficio del console gravavano l’ambiente di una solennità soporifera. Il diplomatico chiese ai due argentini malvestiti che aveva davanti se avessero un biglietto di ritorno. «Non abbiamo neanche quello di andata», rispose Calica, con le poche parole che meritano i buoni intenditori. «E allora non entrerete in Venezuela neanche passando sul mio cadavere», disse il console. Ma Ernesto è sempre stato un tipo irascibile, tanto che finì per fare una rivoluzione e poi tentarne diverse alre, e così lo sfidò: «Non sul tuo cadavere, ma sulla tua panza schifosa e piena di whisky». Poi dovettero uscire camminando all’indietro per evitare i colpi e le manate.

Il problema non era stato risolto, ma un anno prima in Bolivia c’era stata la Revolucion Nacional e non c’era motivo di piagnucolare. Il corteo dei minatori passava per le strade del centro in festa, sparando alle nubi con le mitragliatrici e i candelotti di dinamite a tracolla come fossero granate. Dall’altra parte c’era una coppia di ragazze di cui una era specialmente carina. «No, no, era proprio buona», ricorda Calica, che attraversò la folla a spintoni e si lanciò all’arrembaggio. Lei non sembrò infastidita e Carlos continuò a parlare, mentre Ernesto si cimentava sull’altra. Solo che mentre tutto andava per il meglio, arrivò un terzo pretendente e, capriccio della sorte, neanche lui sembrava infastidire. Il momento più imbarazzante fu quando il piccoletto disse: «Andiamo a berci una cosa al bar» e i due argentini fecero una faccia terrorizzata. Ma lo sconosciuto insisteva e mentre diceva continuamente: «Cameriere, cameriera, cameriere» per ordinare altre cose e rallegrare le ragazze, uno, Ernesto, teneva d’occhio la porta per calcolare il momento giusto in cui scappare senza pagare, mentre l’altro, Calica, guardava quella della cucina vedendosi già lì a lavare i piatti. Al tavolo con loro a ubriacarsi, c’era un nemico personale del presidente Perez Gimenez che fu tolto dagli affari di salotto a Caracas e mandato fuori dalle palle a fare l’ambasciatore del Venezuela a La Paz, perché se fosse rimasto in patria avrebbero dovuto fucilarlo. Una delle prime frasi che disse quello che stava diventando un buon amico di entrambi, fu: «Cosa? Quello stronzo del console non vi ha dato i visti? Lasciatemi i passaporti che ci penso io». Qualche tempo dopo, quando già si trovava a Caracas con il Petiso Granado, Calica andò in edicola, comprò El Universal e lesse in prima pagina: «Catturati gli invasori: un gruppo di sovversivi cubani tenta di prendere l’isola, sotto la guida dell’avvocato Fidel Castro, ma vengono arrestati. Tra loro, c’è anche il medico argentino, Ernesto Guevara de la Serna». «Che cazzo ha combinato questo?», si chiese allora Calica, che lo aveva perso di vista in Ecuador, mentre lui cercava di guadagnare qualche soldo giocando a calcio e l’altro si imbarcava su una nave della United Fruit, per conoscere il socialismo del Guatemala.

Questo articolo è stato realizzato con il ricordo di quei giorni che ancora serba Carlos Calica Ferrer, autore tra le altre cose del libro Da Ernesto a El Che, pubblicato in Italia da Il Maestrale.

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