Perché l’Argentina cresce e fallisce e l’Italia no?

Com’è possibile che Buenos Aires fallisca nonostante crescite del 9% all’anno mentre Roma, che non cresce, sta ancora a galla?

Andrea Curiat

Pubblicato

agosto 5, 2014

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(Foto: Ap/LaPresse)

L’Argentina è entrata in default tecnico: per la seconda volta in tredici anni, il governo di Buenos Aires è di fatto fallito. Cosa significhi lo spieghiamo qui. Ma come è possibile che uno Stato fallisca dopo aver registrato tassi di crescita del Pil pari anche al 9% negli ultimi anni?

Grafico PIL

Il dubbio può sorgere guardando ai dati macroeconomici. Il grafico qui in alto, tratto dal database della World Bank, mostra i tassi di crescita percentuale del Pil di diversi Paesi dal 2007 al 2013. Ci sono gli Stati Uniti, che sono stati colpiti meno duramente di altri Paesi dalla crisi economica e hanno recuperato più in fretta, con una crescita compresa tra un minimo del -2,8% nel 2009 e un massimo nel +2,77% nel 2012. C’è l’Italia, che oscilla tra un -5,5% nel 2009 e un +1,7% nel 2010, per poi tornare in negativo nel 2011 e 2012. C’è la Spagna, con un andamento molto simile a quello dell’economia italiana.

E poi c’è l’Argentina. Lì in alto. Con quel bel tasso quasi a doppia cifra tipico dei Paesi emergenti. Il Pil del Paese ha messo a segno un +8% nel 2007. Non è mai sceso al di sotto dello zero, neanche negli anni più neri della crisi internazionale. Nel 2010, trascorsi i mesi bui, ha reagito con uno sprint da +9,1%, sostenuto anche nel 2011 con un +8,5%. Poi un calo nel 2012 e 2013 tra il +1% circa e il +3%. Quo vadis, Buenos Aires?

In linea di principio, è bene sottolineare un fattore: il fallimento di un Paese non dipende solo dall’andamento della sua economia, ma anche dalla crescita e dalla sostenibilità del suo debito. Ovviamente un tasso di sviluppo accelerato migliora la situazione perché tranquillizza gli investitori (evitando che i tassi di interesse sui titoli di Stato schizzino alle stelle) e fornisce allo Stato buoni flussi di cassa per pagare gli interessi dovuti. Ma se il debito cresce in misura ancora superiore, o è di entità sproporzionata rispetto all’economia di un Paese, allora i rischi di fallimento aumentano.

In secondo luogo, bisogna ricordare come il default attuale sia “figlio” del fallimento del 2001. In poche parole, la maggior parte dei creditori in possesso dei famosi bond argentini ha accettato un piano di ristrutturazione che ridurrebbe il peso del debito argentino del 70% circa. Ma ci sono degli altri creditori che non ne vogliono sapere di concedere uno sconto al governo di Buenos Aires. Ogni tentativo di trattativa è fallito, ma l’Argentina non può rimborsare oggi appieno il proprio debito a tutti i creditori così come non era in grado di farlo più di dieci anni fa.

Infine, anche i dati a volte mentono. Diversi analisti hanno accusato a più riprese il governo argentino di sovrastimare o sottostimare (a seconda della convenienza) i dati sul Pil, sull’inflazione (che a sua volta determina la crescita reale del Pil), sui consumi interni del Paese. E in effetti, come riporta il Wall Street Journal, il governo argentino avrebbe recentemente rivisto al ribasso le precedenti stime sul Pil – quasi un’ammissione delle critiche sinora negate. La crescita nel 2008? In passato era stimata al di sopra del 6%, adesso è stata abbassata al 3,1% (come già segnalato nei database della World Bank). In tal caso, proprio l’Argentina si troverebbe a pagare le conseguenze degli errori del governo. Esistono infatti in circolazione numerosi titoli di Stato che pagano un rendimento aggiuntivo solo al verificarsi di alcune situazioni quali, per l’appunto, il fatto che il tasso di crescita ufficiale superi una certa soglia. E così Buenos Aires si sarebbe data la proverbiale zappa sui piedi, condannandosi a pagare 1,4 miliardi di dollari di bonus aggiuntivi ai creditori che, altrimenti, sarebbero rimasti nelle casse dello Stato e sarebbero stati forse sufficienti proprio ad evitare questo default.


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