Musica e muscoli Campagnaro sul palco: «Il mio Pescara è rock»

PESCARA. Nasce come giornalista, ma ha preferito il pallone al taccuino. Lavorava per “Solo Futbol”, poi è diventato uno dei difensori più forti dell’Argentina. A 35 anni Hugo Campagnaro si è rimesso in gioco. È tornato in B da dove era partito, nel 2002, a Piacenza. Adora la musica rock, suona la chitarra e il suo idolo è Angus Young, il chitarrista degli AC/DC. Ama leggere, Gabriel Garcia Marquez, Pablo Neruda e Mario Benedetti i suoi scrittori preferiti. Si è concesso in esclusiva al Centro, davanti a buon caffè in un bar del centro di Pescara.

Campagnaro, uno come lei che cosa ci fa in B?

«A Pescara il progetto è serio e ambizioso. Ci sono tutti i presupposti per fare un grande campionato. So bene che in tanti puntano su di me e farò di tutto per ripagare la fiducia. Il mio passato è importante lo so, ma resetto tutto perché devo dimostrare di valere la maglia del Pescara. Per me è un obbligo giocare per conquistare la serie A. Fisicamente sto bene e già tra una settimana sarò in condizione di scendere in campo, ma, se serve, sono pronto anche per Bari. Pescara è una città stupenda, a misura d'uomo e con tanti servizi. In tanti me ne hanno parlato bene e da questi primi giorni devo dire che hanno ragione. In Italia si vive benissimo e ho fatto di tutto per trovare squadra di nuovo nel vostro Paese perché non avevo nessuna intenzione di rientrare in Argentina. Pescara è una città ideale. Qui la gente ti riconosce e ti ferma per strada, ma è discreta. A Napoli, invece, specie nei periodi molto positivi, non potevo nemmeno affacciarmi in strada perché venivo preso d'assalto. Ho ben capito il calore dei pescaresi, questa è una città che può trascinarti con l'entusiasmo. Forse sarà il clima. Io dico sempre: il clima fa la gente».

Lei è argentino, ma ha delle origini italiane.

«Provengo da un paese piccolissimo che si chiama Coronell Baigorria. Poco più di 1.500 anime a 700 chilometri di distanza da Buenos Aires. Un villaggio in mezzo alle campagne. Pensate che le strade le hanno asfaltate da pochi anni, ma c'è il campo da calcio. Arrivo da una famiglia normalissima. Mio padre, che è morto 20 anni fa, faceva l'agricoltore e mia madre era un’insegnante. Ho un fratello più piccolo, Rafael, che adesso gestisce un bar, ma in passato anche lui ha fatto il calciatore. Ha giocato anche in Italia, nel Voghera».

Come è arrivato in Italia?

«Sono andato via di casa a 16 anni per iniziare a giocare a calcio e sono andato a vivere da mio zio, a Moron. Lì ho finito la scuola e sono stato tesserato dal Deportivo Moron. Qualche anno dopo, durante un torneo, con me giocava anche Aimar (ex Benfica, Valencia e River), mi vennero a vedere degli osservatori del Piacenza e sono arrivato in Italia nel 2002. C'era Agostinelli come allenatore, poi subentrò Gigi Cagni. Quell'anno segnai anche una doppietta al Perugia. A Piacenza ho conosciuto Eusebio Di Francesco, una persona che mi ha aiutato tanto. Lui era già allenatore quando giocava».

Mazzari, Donadoni, Mancini, Iachini. Quali tra questi ha lasciato il segno?

«Il mio maestro è Walter Mazzarri. È stato mio allenatore per otto anni dalla Sampdoria, al Napoli e poi all'Inter. Con lui mi sono trovato bene anche se nell'ultimo periodo all'Inter abbiamo avuto qualche problema per via delle convocazioni in Nazionale. Diciamo che la società non era felicissima quando arrivava la chiamata dall'Argentina. Tra gli altri allenatori non dimentico Iachini. Lui è un motivatore ed è bravissimo nell'organizzazione tattica. Mancini? Ottimo tecnico, ma decisamente più elastico rispetto a quelli che ho avuto in precedenza».

Da dove arriva il nomignolo El Toro?

«Il soprannome mi è stato dato da Mazzari, forse per la mia stazza».

Origini italiane e un passato particolare.

«Il mio bisnonno era di Castelfranco Veneto e ho preso la cittadinanza italiana nel 2000. Da ragazzino ho fatto il giornalista. Ho lavorato per "Solo Futbol"; mio zio, Sergio Castilo, era il direttore di quel giornale. Lavoravo in redazione e scrivevo di calcio minore. Passavo le ore al telefono per recuperare tabellini e cronache delle partita di quarta serie. Una cosa che mi piaceva parecchio. Tanti miei colleghi odiano i giornalisti, io no. Rispetto il loro lavoro. Alcuni calciatori snobbano giornali, tv e giornalisti. Poi, però, in tanti, dopo le partite, vanno alla ricerca delle pagelle e se prendono per un brutto voto, ci rimangono male. La critica fa bene. Se il giornalista ti critica vuol dire che in qualche modo lo hai colpito e parla di te».

Il giocatore più forte con il quale ha giocato?

«Escludendo Messi, il più forte è sicuramente Angel Di Maria. E' uno che spacca in due le partite. Se non si fosse infortunato nella finale del Mondiale 2014, probabilmente la Germania non avrebbe alzato la Coppa».

Di Maradona che cosa ci dice?

«Con Maradona ho avuto il piacere di giocare assieme alla "Partita per la pace", voluta da Papa Francesco. E' una persona straordinaria. Solo con la sua presenza ti trasmette una carica incredibile. Quel giorno ero nello spogliatoio dello stadio Olimpico e mi stavo preparando per scendere in campo. Diego arriva nello spogliatoio, in cui c’erano Zanetti, Valderrama e Cordoba – non gli ultimi arrivati – ma di colpo è sceso il silenzio. Hanno tutti un gran rispetto di Diego».

Messi come Maradona?

«Leo tecnicamente è simile a Maradona, ma è costante nel rendimento rispetto ai tempi di Diego a Napoli. Forse è anche più forte».

L'attaccante più difficile da marcare?

«Il più forte che ho marcato è stato Ibrahimovic, ma quello più difficile da affrontare è Di Natale, mi ha sempre messo in difficoltà».

Che cosa fa nel tempo libero?

«Suono la chitarra. Ho 9 chitarre e 2 bassi. Mi piace la musica. Green Day e Ac/Dc i miei gruppi preferiti. A Napoli avevo anche una band con Denis (attaccante dell’Atalanta, ndr), che suonava la batteria, e Bogliacino chitarrista».

Che cosa le manca dell'Argentina?

«L'asado (l'arrosto argentino) e il mate (una bevanda preparata con le foglie di erba Mate)».

I suoi amici nel calcio?

«Carrizo e Miglionico, ma anche Zanetti e Cordoba».

Quattro anni fa in Argentina è rimasto coinvolto in un brutto incidente stradale. Morirono anche tre persone, che cosa ricorda di quella sera?

«L'incidente è stata una pagina bruttissima della mia vita. Non mi va di parlarne perché ho visto la morte in faccia. Ringrazio la mia famiglia e i miei amici che mi sono stati vicini».

Moglie e due bambini, racconti la sua famiglia.

«Mia moglie, Noelia, è del mio stesso paese e ci conosciamo da quando eravamo bambini. Ci siamo conosciuti nel 2000 e dopo un paio d'anni è nata la nostra storia d'amore. Abbiamo due bambini Sofia, che ha 8 anni, e Andres di 5».

Il suo rapporto con la fede?

«Sono molto credente. Ammiro Papa Francesco ed è stato un vero onore conoscerlo qualche anno fa. Lui, poi, è argentino come me ed è un motivo d'orgoglio. Peccato che tifi San Lorenzo, io invece per il Boca Junior».

In Italia è diventato famoso anche per i paradenti che indossa durante le partite e per i suoi polpacci extralarge.

«Il byte devo usarlo perché ho problemi alla mandibola,

che mi provoca dei fastidi alla cervicale e alla schiena. Quest'anno lo indosserò, se sarà necessario, magari biancazzurro. I calzettoni sono sempre stati un problema. I miei polpacci sono enormi e negli anni passati dovevo tagliarli per non avere poi fastidi».

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