Dopo l’articolo dedicato a Rodion Camataru, la rubrica Miti a Metà, giunta al suo ventesimo numero, prosegue la trilogia “Centravanti e dittature” con il secondo capitolo dedicato ad un altro bomber, le cui prodezze (stavolta “mondiali”) finirono per servire la causa di una spietata dittatura militare.
CAPITOLO II: MARIO ALBERTO KEMPES
Venticinque giugno 1978, campionati mondiali di calcio, ultimo atto. Allo stadio Monumental di Buenos Aires, casa del River Plate, si sfidano Argentina e Olanda: in un tripudio albiceleste, la nazionale guidata da Luis Cesar Menotti si trova di fronte ciò che resta della grande generazione dei Tulipani orange che quattro anni prima aveva stregato il mondo con il suo calcio totale; priva di Johann Crujyff, la selezione guidata da Ernst Happel sembra avere cucito addosso il marchio della vittima sacrificale: quando dopo 38 minuti, il numero 10 di casa trova il gol del vantaggio dopo una caparbia percussione centrale, l’Argentina pare ormai avviata a vincere un torneo che non sarebbe potuto (né dovuto) finire altrimenti. Il calcio però, sa infischiarsene delle trame già scritte: a 8’ dalla fine, l’Olanda trova il pari con il subentrato Nanninga, che riesce a bucare di testa un Filliol fin lì insuperabile; le certezze dell’albiceleste vacillano e quasi crollano nell’attimo in cui, ad un soffio dalla fine, Rensenbrink vede rimbalzato dal palo il suo tocco di giustezza sull’uscita del portiere: palla sul fondo e tempi supplementari.
Il primo extra-time sta per concludersi sul risultato di parità quando, ancora lui, il numero 10 dell’Argentina, all’ultimo minuto, risolve una mischia nell’area piccola toccando la palla quel tanto che basta a farla rotolare oltre la linea: 2-1, giusto nella porta che, un quarto d’ora prima aveva negato agli olandesi il gol della vittoria… Poi Bertoni timbra per il tris a metà del secondo supplementare e la torcida argentina può finalmente celebrare il primo, storico, successo in un campionato del Mondo.
L’eroe di serata è lui, Mario Alberto Kempes, 24 anni compiuti da una decina di giorni: mezzala di punta del Valencia, il “Matador” ha trascinato a suon di gol la propria nazionale ad un successo sul quale, però, si stagliano le dense ombre del dubbio e del sospetto: l’Argentina, infatti, da oltre due anni, è costretta nella morsa della dittatura militare del generale Videla, assurto al potere capeggiando il golpe militare del 24 marzo 1976. Da quel giorno, e per i successivi sette anni, la nazione sudamericana vivrà anni bui, caratterizzati dalla ferocia del regime militare e dalla strage dei desaparecidos. Anche gli osservatori meno acuti capirono che il Mondiale del ’78 avrebbe avuto poco a che fare col calcio: una nazione sull’orlo della bancarotta si fece carico di spese faraoniche per mostrare al pianeta la migliore versione di sé, con il clamore dei caroselli a sovrastare il grido ruggente delle proteste di strada.
Dopo oltre quarant’anni di mondiali, passati a veder vincere gli odiati dirimpettai al di là del Rio della Plata e i cugini brasiliani, era giunto il momento dell’Argentina: quella del ‘78 era un’occasione da non perdere e l’incidenza del “fattore casalingo” fu evidente, oltre che facilmente prevedibile. Il 6-0 rifilato al Perù che permise alla Seleccion di raggiungere la finale a scapito del Brasile fa ancora parlare di sé (i padroni di casa giocarono solo dopo i verdeoro, sapendo quindi in anticipo quale risultato bastava per qualificarsi), anche più dell’arbitraggio in finale di Gonnella -niente di clamorosamente scandaloso, ma bollato storicamente come “casalingo”. Fato volle che a fare da volano al nazionalismo di regime fosse quindi proprio Kempes, (anche perché Menotti lasciò a casa il diciottenne Maradona), capocannoniere di un’edizione vissuta nei toni bui e opprimenti di quegli anni, fatti di crisi, militanza e agitazione sociale.
Nato nel 1954 a Bell Ville, cittadina della provincia di Cordoba, Mario Alberto Kempes era figlio di un carpentiere (con trascorsi da giocatore dilettante nella squadra locale); a sedici anni entra nelle giovanili del Club Bell, in cui milita fino al 1971. L’anno in cui la carriera del giovane Maurito svolta verso il professionismo è il 1972.
“Guarda, ti do’ un crack. Si chiama Mario Kempes, e se non segna entro 15′, me lo riprendo“, parola di Eduardo Tassolini, presidente del Club Bell di Bell Ville; il destinatario è Attilio Pedraglio, dirigente dell’Istituto che batteva i campi di periferia alla ricerca dell’erede di Hugo Curioni, venduto al Boca due anni prima. Qualche giorno più tardi, squilla il telefono a casa Kempes: il giovane Mario era atteso per un’amichevole di prova con l’Instituto, che avrebbe sfidato l’Argentino Central, vicecampione distrettuale. Giunto ad Alta Cordoba dopo tre ore di viaggio in autobus, al momento del riconoscimento mentì sul nome e si presentò come Carlos Aguilera; quando il tecnico dell’Istituto Armando Rodriguez gli chiese di “un tale Kempes di Bell Ville” ricevette un “non lo conosco” come risposta: il giovane Mario sapeva che l’allenatore dei biancorossi diffidava dai ben raccomandati. Malgrado le mentite spoglie, Kempes prima si procura un rigore e poi segna un gol al 27′: tanto basta, nonostante il “ritardo” rispetto alla promessa di Tassolini, a convincere l’Istituto, che dopo una breve trattativa durata un paio di giorni, acquista il giovane per tre milioni di pesos (tremila dollari al cambio dell’epoca): una cifra importante per un calciatore così giovane, che trovò il modo di mettersi in mostra, segnando i gol che permisero all’Istituto di vincere dopo sei anni il torneo Metropolitano e qualificarsi al Nacional del 1973. Kempes si presentò al grande pubblico un venerdì sera, in diretta TV, con una rete segnata al River Plate che lo consacrò come rivelazione del calcio argentino e gli valse l’attenzione di numerosi club europei (Nizza e Standard Liegi), ma anche nazionali, tra cui il Boca Juniors e il Rosario Central, che nel 1974 sborsa 160 mila dollari per accaparrarselo. L’addio si consuma il 25 gennaio: in un’amichevole contro la futura squadra, Kempes segna l’unico gol del match regalando un ultimo sorriso ai suoi tifosi.
Frattanto, era arrivato l’esordio in nazionale: il 21 settembre del 1973, dopo aver rifilato una cinquina al Racing de Nueva Italia, aveva ricevuto la convocazione del ct Enrique Sivori per la trasferta contro la Bolivia, valida per le qualificazioni a Germania ’74; sarà la prima di 43 presenze, accompagnate da 20 gol. Il triennio trascorso al Gigante de Arrojito è avaro di soddisfazioni, se non personali: alla grande delusione del ’74, quando il Central perde il titolo nazionale per un solo punto, segue il 7° posto nel Metropolitano del ’75 (Kempes segna 35 gol in tutto). L’anno dopo, con 21 reti, il Matador si laurea capocannoniere del Metropolitano, ma non basta per qualificare i gialloblu alla fase finale del torneo nazionale. Nello stesso anno in cui Videla sale al potere, Kempes lascia il Rosario Central quale miglior bomber della storia del club (raggiungendo Waldino Aguirre), attraversa l’Atlantico e si trasferisce in Spagna, al Valencia.
Il periodo valenciano è senza dubbio il più vincente della carriera del Matador di Bell Ville: dopo due stagioni chiuse con un 7° e un 4° posto, nella stagione post-mondiale arriva la Coppa di Spagna; l’anno dopo, con Alfredo Di Stefano in panchina, il Valencia mette in bacheca la Coppa delle Coppe, grazie anche ad un Kempes in grande spolvero: doppietta nel ritorno del primo turno contro i danesi del Boldklubben e al secondo turno contro i Rangers di Glasgow (trafitti anche all’andata), cui seguì un gol nel ritorno del tiratissimo quarto di finale contro il Barcellona, prima del doppio sigillo nel 4-0 al Nantes nel return match di semifinale. In finale, il 13 maggio 1980, all’Heysel di Bruxelles, l’argentino resta a secco: finisce 0-0 contro l’Arsenal; gli spagnoli vincono il trofeo ai calci di rigore. La parentesi al Mestalla viene interrotta da un anno al River Plate (impreziosito dal successo nel torneo Nacional), prima di concludersi definitivamente nel 1984: Kempes lascia il club catalano con 116 gol in 183 presenze e un posto assicurato nella Hall of Fame dei Taronges.
Dopo due anni all’Hercules di Alicante e quasi un decennio nelle serie minori austriache, Kempes appende le scarpette al chiodo a metà anni Novanta, per intraprendere una modesta carriera da allenatore conclusasi nel 2002; da allora si occupa di calcio come commentatore televisivo. Veloce, tecnico e potente, per certi versi antesignano del falso centravanti che tanto va di moda da qualche anno a questa parte, Mario Kempes è stato uno dei più grandi giocatori argentini della sua epoca e non solo, la cui stella venne ben presto offuscata da quella di Diego Armando Maradona, che di lui disse: “Mise il calcio argentino sulla mappa mondiale“. Mica male.
Arrivederci tra due settimane con l’ultimo capitolo di “Centravanti e dittature”.
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