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«Tutti non ci potranno ammazzare» si ripetevano i giocatori della squadra di rugby La Plata nell’Argentina piegata al regime di Videla. Tutti non li ammazzarono, ma la «dittatura dei colonelli» ci andò vicino. La formazione fu decimata: diciassette rugbisti uccisi o svaniti nel nulla, uno dopo l’altro, durante il campionato del 1975. Oggi l’unico sopravvissuto a quella tragedia è Raul Barandiaran, sulla sua testimonianza Claudio Fava ha costruito lo spettacolo «Mar del Plata» in scena al Piccolo Eliseo da domani al 22 novembre con la regia di Giuseppe Marini. «Non aveva mai raccontato la sua storia - rivela Fava - nemmeno quando il regime dei militari era crollato come un castello di carte. Essere rimasti vivi, sopravvissuti al male, è sempre un peso insopportabile. Succedeva agli scampati di Auschwitz, successe anche ai superstiti della mattanza argentina».
Da Buenos Aires a Catania per riannodare fili invisibili
Quel peso Fava - sceneggiatore del film «I cento passi» e figlio di Giuseppe Fava, giornalista siciliano ucciso dalla mafia per le sue inchieste scomode - lo conosce bene. «Ho cercato di riannodare i fili invisibili che legano vite lontane tra loro - spiega - i giovani agenti di Paolo Borsellino che rinunciano alle ferie per far da scorta al loro giudice, i giovani rugbisti di Mar del Plata che rinunciano a trovare rifugio in Francia pur di giocarsi il campionato fino all’ultima partita». Sul palco, come recita il sottotitolo, arriva la storia degli «angeli del rugby che osarono sfidare il regime argentino», che in campo scelsero di correre per lo sport ma anche per la libertà.
La morte e la rabbia
Tutto ebbe inizio con la morte di Hernan Roca, mediano di mischia. Non faceva politica, i bravi incappucciati di Videla lo avevano prelevato da casa scambiandolo per suo fratello Marcelo, militante nel gruppo radicale della sinistra peronista. Lo uccisero ugualmente. Fu il clic che scatenò la rabbia e trasformò lo spogliatoio quasi in una cellula del partito marxista-leninista argentino. Nel 1975 al golpe dei militari mancava ancora un anno ma gli squadroni della Tripla A, l’Alianza anticomunista argentina, erano già in azione. «Pensarla storta, fuori dal coro, era un peccato imperdonabile. A Buenos Aires come a Catania» commenta Fava, che negli anni ha raccontato i morti con le parole dei vivi: le vedove di via d’Amelio, le madri di Plaza de Mayo e Raul Barandiaran. «Ho provato a immaginare le loro vite e perché fecero certe scelte. Poco importa che quei ragazzi fossero argentini o siciliani - conclude - Importa come vissero. E come seppero dire di no». Importa che, seppur falcidiata, la squadra arrivò alla fine del campionato e giocò l’ultima partita in uno stadio gremito che gridava «viva la libertà» in faccia ai colonnelli.