L’ONU, così è (se vi pare)

New York - Settimana intensa frenetica al Palazzo di Vetro quella appena strascorsa. In questa corrispondenza parleremo della conferenza stampa del neo presidente eletto dell’Assemblea Generale, l’ambasciatore di Antigua e Barbuda, John Ashe; della conferenza stampa dell’ambasciatore del Nord Korea sui pericoli di guerra nella penisola koreana; dell’ennesimo duello verbale britannico-argentino per le isole Falkland-Malvinas nei corridoi dell’ONU, e della sessione al Consiglio di Sicurezza della Commissione dell’Onu che investiga sulla situazione in Siria.

Iniziamo da quest’ultima: quando venerdì Paulo Pinheiro, il presidente della commissione incaricata dall’Onu di monitorare la situazione in Siria, uscendo dal Consiglio di Sicurezza con accanto una dei menbri della Commissione, Karen Abu Zayd, è apparso davanti ai giornalisti, ovviamente si aspettava che le domande si sarebbero concentrate su chi non c’era: Carla Del Ponte. Infatti il magistrato svizzero esperta di crimini di guerra, e che fa parte della Commissione internazionale di indagine sulla Siria indipendente e sotto gli auspici dell’Onu, giorni fa aveva dichiarato di avere forti sospetti che le armi chimiche siano state usate anche dai ribelli. Ovviamente questa affermazione di Del Ponte complicava tutta le recenti evoluzione politiche strategiche che girano intorno alla cosiddetta “linea rossa”, che ha recentemente portato l’amministrazione Obama a fornire armi ai ribelli dopo che la Casa Bianca aveva affermato, come del resto francesi e inglesi facevano da tempo, di avere le prove sull’uso di armi chimiche da parte del governo siriano. Ma dato che la Del Ponte aveva affermato che ci sarebbero gravi sospetti anche su ribelli, quali sarebbero le conseguenze di queste responsabilità da parte di entrambe le parti in conflitto?

Pinheiro ha iniziato subito dicendo che Carla Del Ponte era d’accordo su tutto quello che la Commissione ha presentato al Consiglio di Sicurezza. Quando è stato chiesto come mai l’affermazione della Del Ponte sui sospetti che le armi chimiche sia state utilizzate anche dai ribelli non si trovasse nel rapporto presentato dalla Commissione al Consiglio di Sicurezza, Pinheiro ha replicato che non c’erano prove, ma solo sospetti. Ma Pinherio, rispondendo alle raffiche di domande insistenti ha detto che loro non avevano visto prove per quanto riguarda l’uso delle armi chimiche. Cioè neanche da parte del governo?

Nella loro dichiarazione, Pinheiro e Abu Zayd avevano cercato di concentrarsi più sulla fornitura di armi convenzionali a entrambi le parti che combattono in Siria, dicendo che queste forniture peggioravano la situazione vanificando ogni tentativo di pace. Quando noi di Radio Radicale abbiamo chiesto cosa pensassero quindi delle recenti dichiarazioni della Casa Bianca che gli Stati Uniti avrebbero ora fornito armi leggere ai ribelli dopo aver costatato che il governo siriano aveva oltrepassato la linea rossa, Pineherio ha risposto: “La fornitura di armi in questo momento in Siria, a chiunque arrivino e da chiunque fossero fornite, non aiuta ma peggiora la situazione”.
A microfoni spenti, abbiamo chiesto a Pinheiro se, dopo l’incontro con il Consiglio di Sicurezza, fosse più ottimista o pessimista sulla crisi. La risposta: “Non stiamo lavorando qui per l’ottimismo o il pessimismo, ma per avere e dare ancora speranze”.

Poco lontano dallo Stake-out del Consiglio di Sicurezza, il giorno prima Radio Radicale aveva assistito all’ennesimo duello tra l’Argentina e la Gran Bretagna riguardo alla questione delle isole Falkland-Malvinas. Infatti si riuniva la Commissione Speciale per la Decolonizzazione, in cui nel suo testo finale approvava il solito appello affinché le due nazioni negoziassero un accordo per risolvere l’annosa questione della sovranità sulle isole. Nella risoluzione approvata, e che sarà poi messa ai voti dall’Assemblea Generale, le isole venivano come già in passato considerate sotto “una speciale e particolare situazione coloniale”.

Quando ai giornalisti si sono presentati i britannici, rappresentati dall’ambasciatore Mark Lyall Grant accompagnato da Michael Victor Summers, membro dell’Assemblea legislativa delle Falkland, la classica posizione di Londra e stata ripetuta: le Falklands sono e resteranno britanniche perché così vuole la sua popolazione e perché non hanno mai fatto parte dell’Argentina. Grant e Summers hanno detto anche ai giornalisti che il dialogo tra le due parti, mentre negli anni Novanta era stato promettente, da qualche anno si è interrotto del tutto e questo per colpa del cambio di governo argentino. Insomma, per gli inglesi è solo colpa di Buenos Aires se il dialogo è totalmente fermo.

Radio Radicale ad un certo punto ha chiesto ai rappresentanti inglesi se il nuovo Papa argentino Francesco, potesse aiutare nel far riaprire il dialogo tra Argentina e Gran Bretagna per le Falkland. La risposta inglese è stata immediata: “Oh no please, non credo che introdurre il fattore religioso in questa già difficile situazione possa aiutare”. Quando circa un’ora dopo, davanti ai giornalisti si è presentato il ministro delgi Esteri Argentino, Hector Timerman, la musica è cambiata totalmente. Adesso la colpa per i negoziati interrotti, del dialogo inesistente, era solo di Londra perché si rifiuta da anni di incontrare esponenti del governo di Buenos Aires. Timerman ha ad un certo punto fatto una battuta a Radio Radicale, che gli chiedeva a chi dei due si dovesse credere dato che l’ambasciatore britannico aveva appena detto che la colpa era tutta degli argentini: “Venite con me, tutti giornalisti accompagnatemi alla missione britannica e andiamo a bussare alla porta. Vediamo se aprono…” . E poi ha ribadito: “Io come ministro degli Esteri del governo argentino mi aspetto di parlare con il ministro degli Esteri Inglese. Certo non posso andare a parlare, io che sono solo un ministro, con la regina Elisabetta…”.

Ovviamente, bastava assistere a questa scena nelle sale dell’ONU per avere la conferma che la responsabilità della rottura del dialogo risiede su entrambi i governi. Infatti quello britannico insiste che in un incontro tra i ministri degli Esteri dei due paesi, ci debba essere presente anche una delegazione della popolazione delle Falkland. Il governo argentino si ostina a rifiutare l’incontro se ci sono gli abitanti britannici delle Malvinas, perché dice che si deve discute tra governi senza altri ospiti in mezzo.

In questo infinito duello anglo-argentino al Palazzo dell’ONU non sembra che ci siano novità. Quando anche al ministro degli Esteri argentino Timermam Radio Radicale ha chiesto in che modo Papa Francesco potesse aiutare, lui ha risposto che in passato, quando non era ancora papa, il cardinale Jeorge Mario Bergoglio si era espresso senza esitazioni affermando che le isole dovevano tornare all’Argentina. Ok, ma adesso che Bergoglio e diventato papa, cosa vi aspettate da Francisco? Come pensate che possa dare una mano sulla questione delle Malvinas al governo di Buenos Aires, ha chiesto Radio Radicale al ministro argentino ormai a microfoni e tv spente. Timerman ci ha sorriso e ha risposto: “Solo Dio sa cosa può fare il papa. Dio non parla con me, ma col papa ci parla” ha risposto Timerman col sorriso sornione.

Venerdì mattina c’è stata anche una conferenza stampa del nuovo presidente eletto dell’Assemblea Generale dell’ONU, l’ambasciatore di Antigua e Barbuda, John Ashe. Davanti ai giornalisti, il neo letto presidente, ricordando che non entrerà in carica fino a settembre, ha ribadito i concetti già espressi nel suo primo discorso all’Assemblea generale subito dopo l’elezione avvenuta una settimana prima. E cioè che la sua missione sarà concentrata soprattutto sulla presentazione di una agenda per lo sviluppo sostenibile per tutti i popoli della terra e che potrebbe risultare come il progetto più audace e ambizioso che le Nazioni Unite abbiamo mai dovuto realizzare. Per il neo presidente eletto, per la prima volta di uno stato caraibico così piccolo - ricordiamo che Antigua e Barbuda ha soli 90 mila abitanti - le questioni degli obiettivi del Millennio avranno una particolare attenzione nella sua agenda, ma ha ribadito che è importante attirare l’attenzione anche su nuove ed emergenti sfide allo sviluppo in primis sulla povertà estrema e appunto lo sviluppo sostenibile.

In attesa di mettere a frutto molti dei risultati della Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile (Rio +20), ha dichiarato Ashe che la tematica che ha scelto per la 68ª Sessione sarà Post-2015 Development Agenda: Setting the Stage ovvero l’Agenda di Sviluppo post-2015.
L’ambasciatore Ashe, non è un neo arrivato all’Onu e vanta una grande esperienza essendo stato co-Presidente del Bureau per il processo di preparazione della Conferenza Rio +20, Presidente del Quinto Comitato (Amministrativo e di bilancio), del Gruppo dei 77 e di servizio negli organi direttivi dei principali accordi ambientali delle Nazioni Unite. Lo stesso Segretario Generale dell’Onu, Ban Ki Moon, il giorno della elezione del nuovo Presidente dell’Assemblea generale, aveva esultato dicendo che "L’Amb. Ashe condivide la mia passione per lo sviluppo sostenibile e la mia preoccupazione per il problema del cambiamento climatico ".

Radio Radicale ha chiesto al neo presidente eletto, cosa ne pensasse dei tentativi di riforma delle istituzioni dell’ONU che da tanti anni cercano di passare dall’Assemblea Generale, ma che, come nel caso del più importante, la riforma del Consiglio di Sicurezza, restano sempre al punto di partenza. Ashe, sempre sorridente, ha detto delle frasi di circostanza, dicendo che ovviamente la riforma è molto importante, ma da buon diplomatico non ha dato alcun segnale su quale delle riforme per il Consiglio di sicurezza, tra quelle principali che circolano abbia più chance di arrivare a destinazione, cioè quella appoggiata da India, Brasile, Germania e Giappone, che aspirano ad un seggio permanente, e alla quale si oppone l’Italia con la sua coalizione chiamata “Uniting for consensus”, uniti per il consenso, che invece propone una riforma più democratica di allargamento del Consiglio di Sicurezza.

L’ambasciatore Ashe ha cercato in tutti modi, anche nelle successive domande di altri giornalisti, mostrando una notevole capacità di trasmettere simpatia, di dire più volte che le sue possibilità di manovrare l’Assemblea erano in fondo limitate. Ma la nostra impressione è stata che il neo presidente dell’Assemblea Generale, seppur proveniente da un piccolissimo paese come le isole di Antigua e Barbuda, non si lascerà scappare l’occasione per cercare di lasciare una impronta importante per questa incredibile occasione che viene offerta agli interessi dei paesi più piccoli dell’Onu.

Ricordiamo che il presidente uscente dell’Assemblea Generale, il serbo Vuk Jeremic, ha suscitato molte polemiche per aver, secondo soprattutto gli americani, messo l’interesse nazionale della sua Serbia - di cui è stato ministro degli Esteri - al di sopra degli interessi dell’ONU. Ricordiamo che l’unico italiano fino ad oggi ad essere stato nominato 20° Presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite è stato Amintore Fanfani, nel 1965-1966.

Per ultima parliamo del briefing, sempre venerdì, dell’ambasciatore Nord Koreano all’ONU Sin Son Hio, in cui il diplomatico del regime di Pyonjang ha attaccato gli Stati Uniti per quel “UN Command”, il comando militare unificato ristabilito nella Corea del Sud recentemente e appunto chiamato UN Command ma che con l’Onu non ha niente a che fare. Per il rappresentante della Nord Korea, infatti, l'America lo usa a suo piacimento come uno strumento di guerra: per questo Pyonjang si appella a tutti gli Stati dell’ONU affinché Washington sciolga quel suo braccio militare nella penisola che non fa altro che aumentare la tensione già altissima.

L’ambasciatore Nod Koreano, che ha parlato a lungo ripercorrendo tutta la storia dalla guerra degli anni Cinquanta fino a oggi, ha affermato che la Korea del Nord ha sempre voluto la firma di un trattato di pace che sostituisca l'armistizio tra le due Coree, unica via per porre le basi di una stabilità duratura, ma che è stata la politica di Washington sempre a porre ostacoli contro il raggiungimento di un trattato di pace che possa eliminare le possibilità della guerra che invece minaccia la regione in ogni momento.

A chi gli chiedeva sulle sanzioni ricevute dalla Corea per aver continuato la corsa alle armi nucleari, l’ambasciatore Sin Son Ho ha replicato: “Non siamo contro la denuclearizzazione, che consideriamo una destinazione finale, ma questa deve includere l'intera penisola coreana e non solo il mio Paese deve andare anche oltre la penisola coreana. Nessuno dovrebbe avere armi nucleari” ha detto l'ambasciatore Sin Son Ho, rappresentante permanente di Pyongyang al Palazzo di Vetro.
Davanti ai giornalisti, l'ambasciatore ha inoltre sollecitato il governo Obama a ''fermare le sanzioni economiche'' contro la Corea del Nord, invitando gli Stati membri delle Nazioni Unite a non essere ''ciechi''. “Sono gli Stati Uniti e non noi a causare la sofferenza economica delle popolazioni e quindi un aumento delle tensioni creando l'instabilità nella regione”, ha sostenuto il diplomatico.

Quando Radio Radicale gli ha chiesto se l’arrivo alla Casa Bianca dell’ambasciatrice Usa all’ONU Susan Rice, che andrà a ricoprire l’importantissimo incarico di consigliere della sicurezza nazionale di Obama, potesse avere effetti positivi o negativi sul già tesissimo rapporto tra Stati Uniti e Nord Korea, l’ambasciatore Nord coreano ha sorriso dicendo di non volersi immischiare nelle scelte del governo di Obama, ma ha ribadito che solo gli Stati Uniti, cambiando atteggiamento, potranno allontanare lo spettro della guerra nella penisola coreana, perché il governo nord koreano non smetterà mai di difendersi e prevenire qualsiasi tentativo di aggressione nei suoi confronti.
 

Leave a Reply