Il default dell’Argentina del 2001 è rimasto nella percezione collettiva mondiale come un evento traumatico, avendo rotto il tabù moderno dello stato che non fallisce mai. Il peso si svalutò del 200% contro il dollaro, rispetto a cui era stato legato negli anni Novanta da un tasso di cambio improprio di 1:1. Inevitabile lo scoppio dell’inflazione, anche se tra il 2003 e il 2007, l’economia crebbe dell’8% in media all’anno, tanto che il pil a fine 2006 risultava superiore del 46% di quello del 2002, mentre la disoccupazione scendeva dal 22% all’8,7%, il tasso di povertà relativa dal 58% al 28% e quella assoluta dal 28% al 9%.
Era accaduto, infatti, che Buenos Aires si era rilanciata sui mercati internazionali, perché aveva riportato il tasso di cambio peso dollaro ai fondamentali dell’economia argentina, mentre l’alta inflazione interna era compensata dal deprezzamento del peso, mantenendo relativamente stabile il rapporto tra i prezzi interni e quelli esteri.
La crisi argentina e il tentativo di nascondere i reale numeri dell’inflazione
Ma dal 2007 in poi qualcosa cambia. L’arrivo alla presidenza di Cristina Kirchner, moglie del presidente uscente Nestor Kirchner, muta la politica economica in senso più apertamente statalista e dirigista. La spesa pubblica viene aumentata enormemente, per procrastinare i tassi di crescita degli anni post-default, accrescendo, però, l’inflazione a livelli insostenibili, anche oltre il 25% all’anno. I vertici dell’istituto di statistica vengono rimossi, perché la presidenta intende nascondere i dati ufficiali sull’esplosione dei prezzi. E per evitare una tragedia iper-inflazionistica, il governo re-introduce un tasso di cambio controllato contro il dollaro e limitazioni al cambio. Senonché, la misura ha efficacia e un senso, quando al contempo si cerca di tenere stabili i prezzi interni, cosa che non avviene. I provvedimenti, al contrario, sono tesi a proseguire la politica populista della spesa pubblica, con la speranza che un tasso di cambio forte possa ridurre la spinta al rialzo dei prezzi.
E così, tra il 2010 e il 2011, si calcola che l’inflazione cumulata argentina sia stata del 54%, mentre il peso si è deprezzato contro il dollaro solo del 12%. In altri termini, l’economia argentina ha perso un mare di competitività, visto che il cambio non ha registrato la maggiore variazione interna dei prezzi rispetto al dollaro. Da qui, la crisi valutaria che porterà quasi inevitabilmente il paese sulla strada della bancarotta nei prossimi mesi.
L’Argentina dispone di riserve valutarie per appena 7 mesi di importazioni, mentre nonostante i controlli e i limiti ufficiali, è esploso il mercato nero del cambio, dove il dollaro si può acquistare al 70% in più del tasso ufficiale (8,7-8,9 pesos/$, contro il cambio ufficiale di 5,3 pesos/$).
La Kirchner è ricaduta negli errori dei suoi precedessori
In sostanza, la Kirchner ha commesso lo stesso errore dei suoi predecessori degli anni Novanta, da lei così tanto odiati. Ha ancorato il peso al dollaro, ma senza tenere conto dei fondamentali dell’economia domestica. Non ha approfittato del cambio stabile per produrre una politica macroeconomica improntata alla solidità, bensì per fare salire i prezzi e la spesa pubblica, senza che ciò deprezzasse la moneta contro la divisa americana, temendo ripercussioni ancora più nere sull’inflazione.
L’Argentina è diventata per la seconda volta in un decennio non competitiva, dando vita a una stagnazione dell’economia, associata a un’inflazione fuori controllo e per la quale rischia di essere espulsa dal Fondo Monetario, non disponendo Buenos Aires di dati attendibili sui prezzi. E’ la stagflazione, che l’Europa ha conosciuto negli anni Settanta per via delle crisi petrolifere del 1973 e poi del 1979.
Come può adesso il paese uscire dalla crisi? Riconquistando competitività sui mercati internazionali, ossia riportando il peso al suo tasso di cambio reale con il dollaro. Ciò implica una super svalutazione della moneta, visti gli enormi tassi di inflazione degli ultimi anni, a fronte di un cambio quasi del tutto stabile. Ma è l’unica via per evitare di trovarsi senza un dollaro tra qualche mese, impossibilitati a comprare beni stranieri e a ripagare il debito pubblico in forte crescita.
Una lezione anche all’Eurozona, perché l’Argentina dimostra che non è agganciando la valuta a una divisa forte che si crea crescita. Al contrario, la valuta deve essere ancorata sempre ai fondamentali dell’economia. Non importa che il tasso di cambio sia fisso o lasciato alle libere fluttuazioni giornaliere del mercato. L’importante è che nell’un caso che nell’altro, esso rifletta il rapporto tra i prezzi interni e quelli esteri. In altre parole, che l’inflazione venga tenuta sotto controllo e lo stato non intervenga a manipolare di tanto in tanto il tasso di cambio.
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