Buenos Aires - «Me quiero ir». Voglio andarmene. Sta tutta nella reazione imbarazzata ad una semplice domanda la fotografia della situazione economica Argentina a poco più di dieci anni dalla bancarotta. Siamo ad aprile 2013 e su internet fa il giro del mondo la risposta che Hernàn Lorenzino, ministro dell’Economia argentino, dà ad una giornalista greca che sta lavorando a un reportage. La domanda è: «Qual è il vostro tasso di inflazione?».
La risposta purtroppo non c’è, perché i dati ufficiali dicono una cosa, ma quelli ufficiosi parlano di una crescita dei prezzi tre volte superiore. Così il ministro prende e, dopo alcuni attimi di imbarazzo, se ne va. Inflazione, mancanza di liquidità estera, boom del mercato nero dei dollari, disoccupazione: a Buenos Aires negli ultimi mesi si respira aria di incertezza e in molti cominciano a parlare della possibilità di un’altra bancarotta. Sarebbe la settima volta in meno di duecento anni. L’attenzione internazionale si è riaccesa qualche mese fa quando un giudice di New York ha dato ragione ad un gruppo di fondi speculativi che chiedevano il rimborso integrale dei cosiddetti “tango-bond” andati in default, ufficialmente, nel 2005. Questi fondi al tempo non aderirono all’offerta con cui l’Argentina chiedeva di scambiare i vecchi titoli con i nuovi, a fronte di una perdita. E ora chiedono che gli siano ridati indietro 1,3 miliardi di dollari. Buenos Aires ha proposto un rimborso progressivo e ora la proposta è all’esame della Corte statunitense. Da quel momento i credit default swaps sul debito argentino, i contratti derivati che mettono al riparo dalla bancarotta, sono schizzati a livelli record. Ma i problemi non sono solo questi. A febbraio di quest’anno il Fondo Monetario ha avviato una procedura d’infrazione nei confronti del Paese di Cristina Kirchner che, a suo dire, non ha fornito dati veritieri su crescita economica ed inflazione. Secondo la Casa Rosada l’inflazione 2012 è stata del 10,8%, mentre per gli analisti privati ha superato il 25% e continua a crescere. E qui si capisce l’imbarazzo del ministro con la giornalista greca. Ma come si è arrivati fin qui? Lo spiega al Secolo XIX un ex ministro delle Finanze di un Paese sudamericano che negli anni ‘80 si trovò in una situazione simile, e che ora vive e lavora a Buenos Aires: «Il Governo non dà, perché forse non li sa, i dati giusti. Sicuramente un peso lo hanno avuto le tante misure, forse eccessivamente popolari e anche un po’ populiste, varate dal Governo Kirchner. Voglio dire sussidi, tetto ai prezzi, welfare eccessivamente generoso e via dicendo». Poi c’è il problema della valuta estera, del cambio e del mercato nero dei dollari. Il peso argentino sul mercato nero quest’anno ha perso il 22%. «Una responsabilità - continua l’ex ministro - ci fu anche da parte del vecchio governo di Nestor Kirchner, che prese la decisione di ripagare i debiti all’Fmi e altre istituzioni internazionali. Liquidarono così riserve in valuta estera, col risultato che ora dollari ce ne sono pochi ed è schizzato il mercato nero, dove i tassi di cambio sono del 15-16% più alti rispetto al tasso ufficiale. Immaginatevi gli effetti sull’economia, con la gente che cambia i pesos in dollari a tassi stellari e non mette più soldi in banca».
Il Governo ha da poco varato restrizioni proprio al cambio in dollari, per evitarne la fuga, col risultato che il mercato nero (il cosiddetto “dollaro blu”) è aumentato ulteriormente. Neanche la situazione dell’economia reale è rosea: il Pil è passato dal 10,9% del 2011 all’1,9% del 2012. E se il tasso di disoccupazione a gennaio 2013 era solo al 7% (ma in molti temono che sia una sottostima) una botta per i più poveri rischia di arrivare proprio dall’inflazione. «Specie perché l’Argentina è un Paese che fa leva sulla tassazione indiretta, sull’Iva - ci spiega da Buenos Aires Federico Larsen, giornalista dell’agenzia Pangea News - e qui i prezzi, da un mese all’altro, aumentano dal 5 al 10%. Il che significa tra le altre cose non poter mettere via risparmi. A grandi linee la gente ora ce la fa ancora. Il problema arriverà quando i salari non potranno più stare dietro ai prezzi, allora bisognerà cominciare a preoccuparsi davvero. Questo è il vero pericolo argentino».
Federico Simonelli
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