Il passato che non si cancella: le connivenze del papa con la dittatura

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- Claudia Fanti – www.adistaonline.it -

Una dettagliatissima inchiesta di Claudia Fanti sugli scheletri nell’armadio di Bergoglio. I testimoni: la sua ombra anche nel rapimento dei figli di desaparecidos

Un’ombra pesantissima grava sulla figura di Jorge Mario Bergoglio: nella storia sconvolgente delle connivenze dei vescovi argentini con il regime militare (1976-1983), più di una pagina è stata scritta sul ruolo del gesuita divenuto papa.
Bergoglio ci ha provato a difendere la propria immagine, respingendo, nel libro El Jesuita. Conversaciones con el cardenal Jorge Bergoglio, di Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti, le accuse dei sacerdoti Orlando Yorio e Francisco Jalics, sequestrati il 23 maggio del 1976 e torturati per cinque mesi, secondo i quali l’allora provinciale della Compagnia di Gesù (tra il 1973 e il 1979) li avrebbe di fatto consegnati ai militari (v. Adista n. 37/10). In base alla versione esposta nel libro, uscito nel 2010, il futuro arcivescovo di Buenos Aires, di fronte alle voci di un imminente colpo di Stato, avrebbe raccomandato ai gesuiti Yorio e Jalics, accusati di sovvertire l’ordine sociale per il loro impegno tra i più poveri nella baraccopoli di Bajo Flores, «di fare molta attenzione», proponendo loro anche di venire a vivere nella casa provinciale della Compagnia. Yorio e Jalics, tuttavia, non si erano voluti trasferire, finendo per essere sequestrati durante un rastrellamento (sarebbero stati liberati sei mesi più tardi grazie all’intervento del Vaticano). Nel libro, Bergoglio sostiene di non aver mai creduto che i due sacerdoti fossero coinvolti in attività sovversive, ma che «per la loro relazione con alcuni preti delle villas de emergencia (baraccopoli, ndr), erano facili vittime della paranoica caccia alle streghe». Dopo il sequestro, in ogni caso, egli avrebbe cercato di localizzarli e di ottenerne la libertà, come aveva fatto per altri perseguitati.

Gli scheletri nell’armadio La versione offerta dal libro, tuttavia, è stata smentita in maniera netta dal noto giornalista Horacio Verbitsky, il quale, già nel suo libro El Silencio (edito in Italia, con il titolo L’isola del silenzio, per i tipi della Fandango Libri; v. Adista n. 77/06), denunciava le responsabilità di Bergoglio nel sequestro di Yorio e Jalics. Sulla base di documenti inediti e di nuove testimonianze, Verbitsky era tornato poi sulla questione in due articoli apparsi sul quotidiano argentino Página 12 (l’11 e il 18 aprile 2010), richiamandosi tra l’altro a una lettera inviata nel 1977 all’assistente generale della Compagnia di Gesù, p. Moura, in cui Yorio raccontava che Jalics aveva parlato almeno due volte con l’allora provinciale gesuita, il quale, a parole, si era impegnato a bloccare le critiche che circolavano contro di loro nella Compagnia di Gesù, garantendone l’innocenza presso i membri delle forze armate, ma poi nei fatti remava decisamente contro. Come quando Bergoglio raccomandò loro di rivolgersi al vescovo di Morón, Miguel Raspanti, nella cui diocesi avrebbero potuto trovare rifugio, impegnandosi ad inviare un rapporto favorevole perché venissero accettati: successivamente, Yorio e Jalics vennero a sapere dal vicario e da alcuni sacerdoti della diocesi di Morón che la lettera del provinciale a Raspanti conteneva accuse «tali da impedirci di esercitare ancora il sacerdozio». E sarebbero state sempre le accuse del provinciale a negare ai due sacerdoti la possibilità di integrarsi nell’équipe di “pastoral villera” (il lavoro pastorale condotto nelle villas de emergencia) dell’arcidiocesi di Buenos Aires o di venire incardinati nell’arcidiocesi di Santa Fe.
Dopo la loro liberazione, Yorio si recò a Roma, dove il gesuita colombiano Cándido Gaviña lo informò che, secondo quanto riferitogli dall’ambasciatore argentino presso la Santa Sede, il governo sosteneva che lui e Jalics erano stati catturati dalle forze armate perché i loro superiori ecclesiastici avevano comunicato che almeno uno di loro era guerrigliero: «Gaviña gli chiese di confermarlo per iscritto, e l’ambasciatore lo fece».
Jalics si rifugiò invece negli Stati Uniti e poi in Germania. Nel 1990, durante una delle sue visite in Argentina, disse ad Emilio Mignone (fondatore del Centro di Studi Legali e Sociali e autore, nel 1986, del libro Iglesia y dictadura, dove per la prima volta si punta l’indice contro il cardinale) che «Bergoglio si era opposto al fatto che, una volta rimesso in libertà, restasse in Argentina e aveva parlato con tutti i vescovi perché non lo accettassero nelle loro diocesi nel caso si ritirasse dalla Compagnia di Gesù». Non contento, Bergoglio aveva raccomandato pure ad Anselmo Orcoyen, direttore nazionale del Culto cattolico, di respingere la richiesta di rinnovo del passaporto avanzata da Jalics quando si trovava in Germania, come inequivocabilmente dimostra una nota di Orcoyen pubblicata da Verbitsky nel suo libro El silencio.

Amen Ma gli scheletri nell’armadio del nuovo papa Francesco non si limiterebbero al caso di Yorio e Jalics. Un altro durissimo colpo alla sua immagine è venuto nel 2011 dal processo sul sistematico piano di sottrazione dei figli di desaparecidos, in cui Bergoglio è stato citato come testimone a partire dalla deposizione di Estela de la Cuadra, figlia di una delle fondatrici delle Nonne di Plaza de Mayo e sorella e zia di due delle vittime di questo piano (v. Adista nn. 50 e 59/11). Secondo Estela de la Cuadra, infatti, il cardinale avrebbe mentito nel dichiarare, durante il megaprocesso della Esma (la scuola della Marina militare nei cui locali sono stati torturati, anche a morte, innumerevoli desaparecidos argentini), di aver saputo della scomparsa di bambini dopo la fine della dittatura: già nel 1979, infatti, egli era al corrente del caso di sua sorella Elena, sequestrata nel 1977 mentre era incinta, avendo ricevuto suo padre e avendogli consegnato un documento per il vescovo ausiliare di La Plata, Mario Picchi, il quale, proprio su richiesta di Bergoglio, aveva verificato che Elena aveva dato alla luce una bambina, poi affidata a un’altra famiglia («Una buona famiglia e non c’è modo di tornare indietro», aveva spiegato Picchi ai De la Cuadra). Bergoglio, tuttavia, al processo non ha voluto farsi vedere, preferendo rilasciare la sua testimonianza per iscritto, riparandosi dietro all’art. 250 del Codice processuale penale, che riconosce tale possibilità agli alti dignitari della Chiesa.
Respinge le accuse, su Radio Vaticana, il portavoce della Sala Stampa padre Federico Lombardi, secondo cui la «matrice anticlericale» della campagna contro Bergoglio «è nota ed evidente»: «Non vi è mai stata un’accusa concreta credibile nei suoi confronti. La Giustizia argentina lo ha interrogato una volta come persona informata sui fatti, ma non gli ha mai imputato nulla. Egli ha negato in modo documentato le accuse. Vi sono invece moltissime dichiarazioni che dimostrano quanto Bergoglio fece per proteggere molte persone nel tempo della dittatura militare».
E una difesa del nuovo papa viene anche dal Premio Nobel per la Pace argentino Adolfo Pérez Esquivel, che, intervistato da vari mezzi di comunicazione, nega, a sorpresa, che l’allora provinciale dei gesuiti avesse vincoli con il regime militare, sottolineando anzi (su Repubblica, 15/3) come egli avesse «cercato di aiutare le vittime della dittatura». Più articolato, invece, il giudizio espresso sul suo sito il 14/3: «È indiscutibile che ci furono complicità di buona parte della gerarchia ecclesiale con il genocidio perpetrato contro il popolo argentino, e se molti, con “eccesso di prudenza”, hanno compiuto gesti silenziosi per liberare i perseguitati, pochi sono stati i pastori che con coraggio e decisione hanno assunto la nostra lotta in difesa dei diritti umani contro la dittatura militare. Non ritengo Jorge Bergoglio complice della dittatura, ma credo che gli mancò il coraggio di accompagnare la nostra lotta nei momenti più difficili».
«Sarebbe bellissimo – ha commentato invece Roberto Saviano – se il primo gesto del papa fosse invitare a Roma le Madri di Plaza de Mayo» (ma alla domanda su cosa pensasse del nuovo papa, la presidente dell’associazione Hebe de Bonafini ha pronunciato appena un lapidario «Amen»).

Riconciliazione sempre e comunque Proprio la non rimarginabile ferita della dittatura militare è stata la causa degli aspri contrasti che il cardinale ha avuto con il presidente argentino Néstor Kirchner, trovandosi, i due, schierati sui versanti opposti dell’oblio e della memoria, della riconciliazione (a prescindere dalla giustizia) e della giustizia (prima della riconciliazione). Se Kirchner ha sempre respinto con forza l’equazione tra il «giudicare i crimini del passato» e il «creare divisione tra gli argentini», dichiarando di voler fare tutto il possibile per garantire la giustizia, Bergoglio, in sintonia con gran parte dell’episcopato, ha sempre posto l’esigenza della riconciliazione al di sopra di tutto (affermando per esempio che «ciò che vi è stato in termini di peccato e di ingiustizia deve essere benedetto con il perdono, il pentimento e la riparazione»; v. Adista n. 47/07). E si è assunto, insieme agli altri vescovi (e, dal 2005 al 2011, anche in qualità di presidente della Conferenza episcopale), la responsabilità di dichiarazioni e documenti assai lacunosi quanto a ricostruzione storica degli anni della dittatura, assai indulgenti rispetto alla condotta dell’episcopato durante il regime militare, e assai timidi nella richiesta di perdono alle vittime.
L’ultima polemica riguarda il documento intitolato La fede in Gesù Cristo ci muove alla verità, la giustizia e la pace emesso dalla Conferenza episcopale argentina il 9 novembre 2012 (v. Adista n. 43/12), in reazione alle affermazioni del dittatore Jorge Rafael Videla – contenute nel libro-intervista Disposizioni finali. La confessione di Videla sui desaparecidos – riguardo ai buoni rapporti da lui intrattenuti con la gerarchia ecclesiastica («La mia relazione con la Chiesa – ha assicurato tra molte altre cose – è stata eccellente, molto cordiale, sincera e aperta. Non si dimentichi che avevamo ad assisterci anche dei cappellani militari»). Nel loro documento, i vescovi – che finiscono anche, come di consueto, per equiparare il terrorismo di Stato con la violenza guerrigliera, secondo la classica teoria “dei due demoni” – ritengono che quanti allora guidavano l’episcopato «tentarono di fare il possibile per il bene di tutti, secondo la loro coscienza e il loro giudizio prudenziale», aggiungendo tuttavia di non voler «eludere la responsabilità di avanzare nella conoscenza di questa verità dolorosa», impegnandosi a completare uno studio tardo ma necessario (studio che in realtà è stato già abbondantemente realizzato) e ribadendo la loro richiesta di perdono «a quanti abbiamo turbato o non accompagnato come dovevamo». Dichiarazioni, quelle sui vescovi, aspramente contestate dal gruppo di “Preti per l’opzione per i poveri”, secondo cui nessun sacerdote potrebbe mai accettare «una confessione tanto generica, senza riconoscimento concreto delle mancanze e dei delitti commessi», da quello relativo alla giustificazione pubblica della tortura come un male minore fino a quello del silenzio sul tema dei cappellani militari e della loro complicità con il genocidio.

Lacrime di vittime Così, mentre tanti argentini festeggiano per l’elevazione al soglio pontificio di un proprio concittadino, c’è chi, guardando il volto del nuovo papa, rivive l’incubo delle violenze subite. «Non posso crederci», commenta in una email inviata a Verbitsky – di cui il giornalista riferisce nell’articolo uscito su Página 12 del 14 marzo – Graciela Yorio, la sorella di Orlando (mai ripresosi pienamente dalle torture e morto nel 2000 in Uruguay): «Mi sento così angosciata e stravolta che non so che fare. Ha ottenuto quello che voleva. Rivedo Orlando nel soggiorno di casa, alcuni anni fa, dire di lui “vuole diventare papa”. È la persona adatta per coprire il marcio. È esperto nel coprire. Il telefono non smette di squillare, Fito (Adolfo Yorio, ndr) mi ha chiamato in lacrime».
«Non sono sicuro che Bergoglio sia stato eletto per coprire il marcio che ha ridotto Joseph Ratzinger all’impotenza», commenta Verbitsky, assicurando che non si sentirebbe sorpreso se il nuovo papa lanciasse «una crociata moralizzatrice per sbiancare i sepolcri apostolici», ma dicendosi certo «che il nuovo vescovo di Roma sarà un ersatz, parola tedesca di difficile traduzione che indica un surrogato di bassa qualità». Il suo profilo, continua senza fare sconti, è quello «di un populista conservatore come lo sono stati Pio XII e Giovanni Paolo II: inflessibili nelle questioni dottrinarie, ma con un’apertura verso il mondo, e, soprattutto, verso i settori diseredati». Motivo per cui, secondo il giornalista, non mancherà chi vedrà in lui il protagonista dell’«anelato rinnovamento ecclesiale», dimenticando come nei suoi 15 anni alla guida dell’arcidiocesi di Buenos Aires egli abbia «cercato di unificare l’opposizione contro il primo governo che in molti anni ha adottato una politica favorevole a tali settori».

http://cronachelaiche.globalist.it/Detail_News_Display?ID=56324typeb=0

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