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Giampiero Timossi
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Brasile, scontri in tutto il paese
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Genova - «Il primo fu Javier, ripescato dalle acque del Rio della Plata». L’acqua scorre nei fiumi dell’America Latina. Storie che cambiano, Argentina, Brasile, sport e masse, calcio o rugby, le differenze non sono queste. Gli spiriti latini hanno (avevano) bisogno di certe emozioni. Sì, quelle che i giochi di squadra sanno regalare. Sarà per questo che il calcio qui è stato per anni il secondo alleato dei dittatori sudamericani. Il primo era l’uso sistematico della violenza. Sarà per questo, più semplicemente, che in Brasile e Argentina e Uruguay e Cile il futbol era l’oppio dei popoli. Era, perché sono altre storie le storie che oggi raccontano le cronache. Il Brasile brucia, un milione di donne e uomini sono già scesi in piazza, Rio, San Paolo, Brasilia. Brucia di rabbia, perché un milione di brasiliani dicono che le piccole cose della vita (i biglietti dell’autobus, per fare il primo esempio) devono costare meno.
E anche per questo bisognava e bisogna tagliare sulle grandi opere del calcio. Fin qui la grande rabbia brasiliana ha causato due morti e 60 feriti. Da quelle parti la giornata è ancora lunga. Brucia l’oppio dei popoli, ma in Brasile non puoi liquidare così il discorso. Qui il futbol non era una droga, ma una fede, con i suoi profeti (da Pelè a Neymar) e i suoi discepoli. Forse adesso non è più così. Certo, la violenza deve essere condannata. Ma è anche vero che queste manifestazioni dicono che il calcio non chiude più gli occhi. Qualcuno lo ha già capito, almeno in parte. I giocatori della nazionale brasiliana hanno dichiarato di stare dalla parte dei manifestanti. Sì, anche questo è un passo avanti. Meglio, non è la storia raccontata dai Mondiali della vergogna, Argentina 1978, quelli dei silenzi di Menotti e Kempes. La loro discussa vittoria riempì le strade di Buenos Aires. E resta il paradigma perfetto di quanto il calcio vuole mettere il silenziatore all’orrore: 30.000 desaparecidos, 15.000 fucilati, 10.000 torturati sopravvissuti alle sevizie, due milioni di esuli. Eccola la vergogna del pallone, che aveva illustri precedenti e avrà in anni più recenti nuovi affiliati. Il generalissimo spagnolo Franco, usò il suo Real Madrid per soffocare le ambizioni del Barcellona. Arrivò a strappare, con la violenza psicologica e il ricatto, l’asso Di Stefano ai catalani. Certo, Francisco Franco fece di peggio.
Ora il Brasile vive un periodo di democrazia sufficientemente lungo. Ha messo nell’armadio i fantasmi dei presidenti generali, al potere dal 1964 al 1985. È una fortuna, ma non significa che i democratici governanti di Brasilia abbiano saputo intercettare (se non ascoltare) le nuove richieste del popolo. Richieste che, almeno per ora, non vogliono ascoltare i governanti del calcio e le loro “gioiose armate”. Ieri, quando la guerriglia brasiliana saliva in una escalation di violenza, la Fifa ha deciso che la Confederations Cup doveva continuare. Il ct dell’Italia, Prandelli, ha spiegato che comprende, ma che «dal Brasile non si muove». Sulla stessa lunghezza d’onda sono i colleghi di Spagna e Uruguay. Con il Brasile sono le squadre arrivate alle semifinali di Confederations, antipasto del Mondiale che si aprirà a San Paolo il 12 giugno del 2014. In un anno altra acqua scivolerà sui fiumi del Sudamerica. Come quella del Rio della Plata che restituì il corpo di Javier. Giocava nella squadra di rugby del Mar del Plata. Raul Barandiaran è l’unico superstite di quella squadra, sterminata dalle squadracce della dittatura Argentina. L’America Latina ha i suoi martiri e un popolo che ha capito come onorarli.
© Riproduzione riservata
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