La presidente argentina, Cristina Fernandez Kirchner, al seggio elettorale (Reuters)
totale voti
Cala dopo otto anni il sipario sul «cristinismo», il regno di Cristina Kirchner, ma per davvero? E per quanto tempo? I corsi e ricorsi della politica in Argentina non permettono di dare nulla per scontato, nemmeno dopo i risultati delle presidenziali, che si conosceranno oggi. Oppure, come indicano alcuni exit poll, soltanto tra un mese dopo il ballottaggio tra Daniel Scioli e Mauricio Macri. Non potendo correre per un terzo mandato la Kirchner ha indicato Scioli come successore, ma non significa molto. Gli “ismi” nella politica argentina nascono e muoiono come i vitellini nelle pampas. Tranne quello supremo, il peronismo, che si perpetua al potere da settant’anni, con appena qualche interruzione.
Domani quindi può esserci al comando un presidente peronista che fa una politica opposta a quella del suo predecessore, il quale sventolava la stessa bandiera al momento di cercar voti. La buona campagna di Daniel Scioli, sempre in testa ai sondaggi, indica comunque che l’ambiziosa avvocata di La Plata, da studente simpatizzante montonera, poi senatrice, first lady di Nestor e infine tentativo di reincarnazione di Evita, il suo segno sull’Argentina lo ha lasciato. Dopo due mandati presidenziali c’è ancora chi si chiede se sia a posto con la testa (come il settimanale Noticias in edicola che rivela il nome dello psichiatra che l’ha in cura, per disturbo bipolare), o sostiene che la ricetta autarchica pseudo-socialista di Cristina prima o poi farà sbattere l’economia argentina contro il muro. Ma non si possono negare i fatti: con un Paese a crescita zero e inflazione alta, la presidenta esce di scena con il 40 per cento dei consensi, molto di più delle colleghe e amiche Rousseff e Bachelet, in Brasile e Cile, tanto ammirate nel mondo. E sta accompagnando, sia pure non troppo volentieri, l’alleato Scioli alla soglia della Casa Rosada.
I temi lasciati aperti nel post cristinismo sono molti e tali da bruciare le mani a chiunque. L’eredità dello Stato è pesante, si va dalle attività economiche ritornate in mano al pubblico, come aerei, petrolio e poste, ma anche il «futebol para todos», i miliardi che il governo spende ogni anno perché tutte le partite di calcio in tv siano gratis. L’abbondanza di sussidi pubblici, ad anziani e famiglie povere. C’è la pesante eredità del default, quello dei tango bonds, non ancora archiviato perché la Kirchner si è rifiutata di pagare i fondi detentori degli ultimi titoli, che hanno tenuto duro, rifiutando i concambi. Decidendo così, per pochi miliardi di dollari, di tenere l’Argentina ai margini del sistema finanziario internazionale, senza finanziamenti sui mercati. Ci sono gli spiacevoli effetti collaterali da regime, come la mano pesante sui media non allineati e le pressioni sui giudici. C’è il clamoroso caso che si avvia a diventare un mistero eterno, la morte del magistrato Alberto Nizman.
Dei tre concorrenti alla sua successione, solo Mauricio Macri ha detto chiaro e tondo di essere una alternativa ai tre ismi che portano i nomi di Cristina, Kirchner e Peron. Scioli è rimasto vago, ammettendo che dovrà smussare alcuni eccessi di Cristina ma poi ieri è andato a prendersi gli stessi voti nella provincia di Buenos Aires, quelli clientelari, frutto di scambi, comprati con pacchi di pasta, promesse e minacce tra le grande classe medio-bassa. Il terzo candidato, Sergio Massa, si è definito anche lui peronista ma ha visto affievolire la sua stella nel giro di pochi mesi: un anno fa era in testa ai sondaggi in un discorso veemente contro Cristina, della quale era il capo di gabinetto. E non va dimenticato l’ultimo fattore: il prossimo 10 dicembre, giorno di insediamento, il neo presidente dell’Argentina avrà un rivale agguerrito già in campo per succedergli. Il suo nome è Cristina Kirchner.