Buenos Aires – Victor Basterra non è paranoico, ha solo alcune abitudini che chiama «precauzioni» e le mischia con una vita normale. Guarda dallo spioncino prima di uscire e poi saluta il fruttivendolo sul marciapiede. Non dà mai le spalle all’ingresso quando va al bar, ma ordina sempre un’omelette. Casa sua sembra abbandonata: le finestre tappezzate di riviste, il campanello che pende da un cavo e dall’interno, nessun rumore. Nel cassetto della scrivania ha una soluzione pronta per le visite sgradite e uno scatolino pieno di proiettili per ricaricarla. Sul suo tavolo, c’è sempre un bicchiere pieno per chi voglia visitarlo e fare due chiacchiere.
Questa è l’ombra che gli è rimasta addosso dai quattro anni che ha passato nel campo di concentramento dell’Esma, dove ha falsificato centinaia di documenti, tra cui quattro passaporti per Licio Gelli. Fu portato nella Scuola di Meccanica della Marina argentina (ESMA) il 10 agosto del 1979, insieme alla moglie e la figlia di due mesi, poi subito liberate. Lui invece rimase incappucciato e in catene per un anno, finché un giorno i militari saliti al potere con il golpe del ’76, gli fecero una proposta. «Ho sempre fatto il tipografo e mi dissero che dovevo diventare il loro falsario o mi avrebbero ucciso».
Nel sotterraneo della scuola, il laboratorio era accanto alle camere di tortura per cui passò anche lui. Mentre falsificava i tesserini di polizia per gli arresti politici che si facevano in strada, sentiva le urla degli interrogatori con l’elettricità. Un giorno gli portarono quattro passaporti e quattro foto. Le guardò e si disse: «Io questo tipo l’ho già visto». Prima del sequestro, aveva letto «In nome di Dio», un libro in cui il giornalista inglese David Yallop sostiene che Papa Luciani sia stato avvelenato per mandato di Licio Gelli. Ecco perché quella faccia non gli era nuova.
La strategia di Victor per sopravvivere all’Esma era quella dell’abile stupido. Se gli facevano una domanda, rispondeva: «Eh?» con uno sguardo vuoto, e si rimetteva a fare i suoi falsi perfetti. In realtà i documenti erano solo quasi perfetti: la punzonatura col numero di serie che attraversa le pagine dei libretti d’identità si faceva a mano e lui saltava sempre un paio di buchi, sperando di mettere nei guai qualche agente. «Non ricordo se lo feci anche con Gelli e non so se è per questo che la polizia svizzera scoprì il falso».
Nel 1981, il «Gran Maestro» prese un volo per il Sudamerica, fuggendo da un mandato di cattura italiano, per il finto rapimento di Sindona. In Argentina aveva anche più potere che nel nostro paese e una volta disse di aver iniziato lui stesso Peron alla massoneria. Dal 1974 al 1981 fu consigliere economico della loro ambasciata a Roma. Nelle liste della P2, compare anche l’ammiraglio Emilio Massera, testa di serie tra i generali che realizzarono il colpo di Stato. Due giorni dopo il golpe, Gelli scrisse a Massera rallegrandosi che «tutto fosse andato secondo i piani».
Victor è sicuro che un civile, per giunta straniero, dovesse avere amici molto in alto perché i militari gli regalassero quattro passaporti. È probabile che il «Venerabile» li abbia usati per andare in Uruguay, dove nascondeva un tesoro. Uno di questi, a nome Ricci, lo mostrò alla banca UBS di Ginevra per prelevare 120 milioni di dollari in contanti. Era il settembre del 1982 e qualcuno mangiò la foglia. Gli svizzeri arrestarono Gelli, ma lui riuscì a evadere. Victor, che fu liberato nel 1983, venne incriminato per falsificazione: sul documento c’era l’impronta del suo pollice e la sua calligrafia.
In tribunale si trovò alla sbarra insieme ai vecchi torturatori, ma riuscì a chiarire la sua innocenza. I colpevoli, invece, sono stati condannati per lesa umanità. Nelle sentenze, hanno giocato un ruolo fondamentale le foto tessere che Victor scattava per fare i documenti e di cui rubava sempre una copia, che poi portò fuori dal carcere. Oggi le mostra nelle scuole. Sono la traccia di un passato che non smette di turbarlo. Poche settimane fa, mentre tornava da un’esposizione delle sue foto, è stato speronato da un camion in autostrada. Quando è sceso a chiedere spiegazioni, il conducente ha risposto sparando e la polizia, accorsa sul posto, ha poi fatto di tutto per evitare l’arresto dell’uomo. «Sono situazioni molto strane – conviene accarezzandosi il mento – il giorno che mi lasciarono libero un ufficiale di marina mi disse: “Ricorda che i governi passano, ma la comunità d’intelligence resta sempre quella”». Gelli, 97 anni, è morto l’altro ieri agli arresti domiciliari.
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