Un giudice di New York sentenzia che il governo argentino deve rimborsare interessi e valore intero dei bond acquistati da alcuni fondi speculativi che hanno rifiutato l’accordo concluso da Buenos Aires coi creditori che detengono il 92,4 per cento del suo debito ristrutturato, e che nel frattempo non può versare a questi ultimi neanche un dollaro, anche se questo dovesse causare il default del paese per la seconda volta in tredici anni. La presidente Cristina Kirchner e i suoi ministri strillano e si dimenano, i creditori europei si chiedono che cosa c’entrino loro che i bond ristrutturati li avevano sottoscritti in euro, ma la Corte suprema americana stabilisce che è giusto così.
Una task force di enti americani composta dal Department of Justice, l’Office of Foreign Assets Control del ministero del Tesoro, il Department of Financial Services di New York e l’ufficio del procuratore di Manhattan stabilisce che la banca francese Bnp Paribas deve pagare 8,9 miliardi di dollari di sanzioni, la più pesante multa a un istituto di credito di tutta la storia, sospendere le operazioni in dollari di alcune sue filiali per un anno e licenziare una dozzina di dirigenti per la colpa di aver servito clienti che si chiamano Sudan, Cuba e Iran, anche se le leggi francesi ed europee glielo permettevano. La banca paga ed esegue senza fiatare.
Le più importanti banche svizzere, sempre molto risolute quando si tratta di difendere il segreto bancario dei loro clienti (a meno che il governo federale non disponga diversamente), impongono ai loro clienti di passaporto statunitense di rivelare se hanno pendenze col fisco del loro paese o se stanno cercando di evaderlo: iniziativa prudenziale per evitare multe e sanzioni delle autorità americane, che già hanno colpito in passato.
La sequenza degli avvenimenti lascia senza respiro. Quando, all’inizio del suo primo mandato, Barack Obama affermava che con lui gli Stati Uniti avrebbero fatto leva sul soft power molto di più che sull’hard power, a differenza dell’epoca di G. W. Bush, tutti avevano pensato alle virtù intrinseche dell’ideale democratico e delle libertà americane. Forse adesso si capisce cosa intendeva dire: droni a parte, per riaffermare l’egemonia americana nel mondo Washington conta molto di più sull’universalità del dollaro, sulla longa manus dei giudici americani e sulla severità delle loro sentenze che non sulla minaccia o sul fragore delle armi. Tuttavia anche in questo caso la reazione è partita: come la strapotenza politico-militare americana ha causato la reazione dei jihadisti invidiosi, così l’egemonia giuridico-finanziaria made in Usa sta suscitando schiere di avversari e alleati irritati che dalle parole cercano di passare ai fatti. Sempre più governi e sempre più privati cercano modi per fare a meno del dollaro nelle transazioni e delle piazze finanziarie americane per l’emissione di titoli.
I diritti degli speculatori
La sentenza del giudice Thomas Griesa sui bond argentini, avallata da due corti d’appello e infine da quella suprema, è discutibile di suo. Martin Wolf, commentatore di punta del Financial Times, l’ha definita «estorsione sponsorizzata dal sistema giudiziario Usa». Le autorità argentine hanno fatto inserzioni sui giornali di mezzo mondo per far sapere che essa vìola il diritto internazionale e il principio di immunità sovrana. In base a un’interpretazione stravagante del principio dell’uguale trattamento dei creditori, il giudice ha stabilito che se l’Argentina decideva di pagare gli interessi maturati ai creditori che nel 2005 e nel 2010 avevano accettato il concambio dei bond andati in default nel 2001 in ragione di 30 centesimi per 1 dollaro investito inizialmente, allora doveva contemporaneamente pagare anche i creditori che non lo avevano accettato, per il valore pieno del titolo e degli interessi che essi pretendono. Ha pure costretto le banche di New York che dovevano eseguire l’operazione di pagamento degli interessi dei creditori concordatari a rispedire i soldi versati dal governo argentino al mittente. In buona sostanza, l’1 per cento dei creditori (quelli che non hanno accettato il concambio e hanno fatto causa in tribunale), ha bloccato l’esecuzione di un accordo approvato dai detentori del 92,4 per cento del debito. E non si tratta di poveri diavoli che hanno perduto i risparmi di una vita: i capofila dell’azione giudiziaria sono Nml Capital e altri hedge fund che hanno comprato i bond argentini dopo la bancarotta del 2001 sul mercato secondario per pochi centesimi di dollaro.
«Il fondo Nml di Paul Singer – ha scritto la presidenza argentina sui giornali – nel 2008 ha pagato 48,7 milioni di dollari per l’acquisto di titoli dichiarati in default. Oggi la sentenza del giudice Griesa gli riconosce un guadagno in soli sei anni del 1.608 per cento, ossia pari a 832 milioni di dollari». Se l’Argentina paga ai querelanti gli 1,5 miliardi di dollari che pretendono, poi dovrà pagarne 15 agli altri creditori non concordatari che non si erano rivolti al tribunale; e alla fine dovrà pagare 130 miliardi a tutti i creditori, perché nel contratto dei bond ristrutturati a 30 centesimi di dollaro sta scritto che il paese non può offrire a nessun altro investitore condizioni migliori dei 30 centesimi pagati ha chi ha accettato la ristrutturazione, a meno che non le estenda a tutti. Se l’Argentina non fa nulla, alla fine di luglio va in bancarotta e resta tagliata fuori dai mercati finanziari internazionali.
Ma, si dirà, i 100 miliardi di debito argentino andati in default nel 2001 erano stati sottoscritti in dollari attraverso banche americane e i contratti facevano riferimento alla legge statunitense: troppo tardi per lamentarsi. Però la sentenza investe anche chi i bond ristrutturati li ha trattati in euro sulla piazza di Londra con contratti di diritto britannico. La sentenza di New York impedisce pagamenti che avvengono fuori dalla giurisdizione americana, fra soggetti che americani non sono. Detto in altre parole: i giudici statunitensi mettono in crisi i mercati finanziari internazionali costringendoli a sottomettersi alla loro volontà. A ciò si aggiunga un’altra conseguenza di portata incalcolabile: d’ora in poi le ristrutturazioni dei debiti sovrani falliti diventeranno difficilissime, perché i creditori non accetteranno più tagli del valore nominale dei bond, in quanto possono sperare l’indennizzo pieno se si oppongono e fanno resistenza come nel caso americano.
L’interventismo giudiziario
L’altro caso che ha visto leggi e giudici americani interferire in transazioni fra banche e paesi stranieri operanti fuori dalla giurisdizione americana è quello che ha riguardato Bnp Paribas. Per quanto si possano considerare moralmente e politicamente riprovevoli i servizi svolti da una filiale svizzera di Bnp per i governi del Sudan, dell’Iran e di Cuba fra il 2002 e il 2009, per un valore pari a circa 30 miliardi di dollari, essi non hanno violato nessuna legge europea né alcuna norma del diritto internazionale. Però erano in contrasto con il sistema di sanzioni economiche vigente verso quei paesi negli Stati Uniti, e le operazioni finanziarie si sono svolte in dollari. Tanto è bastato ai regolatori americani per intervenire pesantemente sulla prima banca di Francia. La quale si è sottomessa in forza del principio del male minore: se non avesse accettato la punizione draconiana comminatale, Bnp sarebbe stata privata della licenza per operare sul mercato americano e, in pratica, per trattare dollari. L’equivalente della pena di morte: la banca avrebbe dovuto chiudere i battenti. Il caso è eccezionale per l’entità della sanzione (pari a due anni circa di profitti dell’istituto), ma per nulla isolato: negli ultimi cinque anni gli Stati Uniti hanno comminato multe per motivi analoghi a quelli addotti per Bnp a colossi finanziari stranieri come Hsbc (1,9 miliardi di dollari), Standard Chartered (667 milioni), Ing (619), Credit Suisse (536), Abn Amro (500), Lloyds (350), Barclays (298). Francesi, inglesi, olandesi, svizzeri: per le autorità americane non fa differenza.
Una conseguenza di tutti questi casi è che al tradizionale malumore dei paesi non occidentali verso quella che il sito internet della radio Voce della Russia definisce «la dominazione finanziaria americana» si sta sommando quello di paesi alleati degli Stati Uniti e di operatori finanziari e commerciali dei paesi dell’Unione Europea. Che moltiplicano gli appelli a utilizzare divise diverse dal dollaro per gli scambi internazionali e a utilizzare piazze finanziarie alternative a quelle americane per l’emissione di debito sovrano. I più assertivi sono i francesi, scottati dalla multa a Bnp Paribas. «Noi europei vendiamo e compriamo fra noi aeroplani pagandoli in dollari. È necessario? Credo di no», ha dichiarato recentemente il ministro delle Finanze Michel Sapin. E il presidente di Total aggiunge: «Il prezzo del barile è quotato in dollari, ma nulla impedisce a una raffineria di avvalersi del cambio giornaliero fra dollaro ed euro ed effettuare il pagamento in quest’ultima valuta».
Il predominio finanziario americano, amplificato dall’interventismo internazionale del suo sistema giudiziario, appare effettivamente sproporzionato anche nel confronto con l’indubbia potenza economica del paese: il Pil degli Stati Uniti costituisce il 20 per cento del totale mondiale, ma il dollaro rappresenta la valuta con cui viene regolato l’87 per cento di tutti gli scambi internazionali, il 60 per cento delle riserve valutarie di tutte le banche centrali del mondo, e più del 50 per cento di tutti i prestiti internazionali. Per adesso, però, più che lamentarsi gli europei non fanno. Diverso il caso dei paesi cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), che si concepiscono come potenziali protagonisti di un mondo multipolare e per questo hanno iniziato, benché timidamente, a sfidare l’egemonia finanziaria occidentale in generale e americana in particolare. Per aggirare eventuali sanzioni americane, a fine giugno scorso due banche russe hanno lanciato obbligazioni in euro per un valore pari a 2 miliardi. Nell’Unione Europea sono state commercializzate da banche inglesi, francesi e di altri paesi. Ma le mosse più interessanti sono quelle che i Brics in generale e la Cina in particolare stanno facendo per ridurre la centralità del dollaro negli scambi internazionali e nel mercato del credito. Quando questo articolo sarà nelle mani dei lettori, si saprà probabilmente quale città ospiterà la banca per lo sviluppo dei paesi Brics, la prima istituzione permanente che il gruppo ha intenzione di creare. La riunione dei Brics in Brasile aveva all’ordine del giorno una decisione in merito, e Shanghai appariva come la favorita. Il capitale sociale iniziale dovrebbe essere di 50 miliardi di dollari, forniti in parti uguali dai cinque paesi, che intendono anche istituire un fondo di emergenza per le crisi finanziarie del valore di 100 miliardi di dollari (in questo caso la Cina da sola ne fornirebbe 41).
Oltre gli accordi di Bretton Woods
La Cina poi è decisissima a inaugurare quanto prima una Banca asiatica per l’investimento nelle infrastrutture che rivaleggerebbe con la Bad, la Banca asiatica per lo sviluppo di fatto controllata da giapponesi e americani (che detengono il 15,7 e il 15,6 per cento del capitale rispettivamente, contro il 5,47 per cento dei cinesi). La nuova banca, a maggioranza cinese, partirebbe con un capitale di 100 miliardi di dollari (quello della Bad è di 165). Per misurare le ambizioni di queste iniziative si tenga presente che il capitale sociale del gruppo della Banca mondiale è attualmente di 223 miliardi di dollari (190 dei quali appartenenti alla Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo), che il Fondo monetario internazionale dispone di risorse per 215 miliardi di dollari, e che il Meccanismo di stabilità europeo, pensato per affrontare una crisi di debito sovrano, può rendere disponibili a prestiti di emergenza 500 miliardi di euro.
La riforma dei diritti di voto per nazione nelle istituzioni della Banca mondiale, che li riequilibra a favore dei paesi emergenti, è bloccata dal Congresso americano. Nel frattempo si profilano all’orizzonte queste «alternative alle istituzioni che formano l’ossatura del sistema finanziario internazionale ereditato dagli accordi di Bretton Woods, dominato dagli Stati Uniti», come scrive su Le Monde Sylvie Kauffmann. Ma la strada perché le alternative diventino reali e serie è lunga.