«Un vero argentino non può giocare a Torino»: la massima è accompagnata da una maglia del Napoli, che sovrasta il bancone. Non è l’unica dedicata alla bella Partenope: ce ne sono diverse autografate e incorniciate alle pareti, con sponsor come Mars, Buitoni e Cirio che profumano di Anni ’80 e rievocano nostalgiche i tempi d’oro di Diego Armando Maradona.
Dal cotone azzurro e sbiadito alle fibre lucide e sottili, dal religioso 10 che di nome non aveva bisogno al 9 con su scritto “Higuain”: «Gonzalo, Napoli ti ama» recita una sciarpa rosa shocking comprata l’anno scorso fuori dal San Paolo. Siamo nell’osteria – bodegòn, “cantinone” nel gergo portegno – del Club Atletico Palermo, il più antico del quartiere che deve il proprio nome al capitano siciliano Giovanni Palermo, sbarcato su queste sponde nel 1890, un tempo sobborgo paludoso popolato da immigrati italiani e ora cuore pulsante e modaiolo della città.
Il 21 luglio 1914 il farmacista Arturo Soler fondava il club vestendo un manipolo di dilettanti con divise bianche, rosse e azzurre e iscrivendoli alla Liga Argentina de Football, dove l’accento britannico la faceva ancora da padrone. Cent’anni dopo, piccoli indemoniati di 6-7-8 anni sfrecciano sul parquet da calcio a 5, mentre nell’aria si diffonde il richiamo della carne ai ferri, l’aroma denso del sugo di pomodoro, il profumo festoso e invitante della cipolla e dell’aglio dorato.
Il maître Claudio, bandiera del club e anello di congiunzione tra la cucina e il salone, avanza a memoria tra i tavoli con lo sguardo bonario, portando sul vassoio un bicchiere basso e largo dove una generosa dose di gelato punteggiato da noci tritate affoga in quattro dita di whisky: è la famigerata “Coppa Don Pedro”, il trofeo per coloro che arrivano in fondo al pantagruelico menù della casa, da affrontare con calma, vino e cuor leggero.
La provola infarinata e poi messa sulla parrilla, croccante e dorata fuori e cremosa dentro, il maialino da latte o lechòn, marinato con chimichurri e cotto in forno a fuoco lento per 6 ore, burroso e fragrante, da servire tiepido per poterne assaporare tutti gli aromi, o ancora le tenere mollejas, animelle di vitello saltate con porri o grigliate e accompagnate da spicchi di limone, possono essere l’assist ideale per il classico asado o per il bife de chorizo “a cavallo”, controfiletto di manzo sormontato da un paio di uova all’occhio di bue.
Mentre la milanesa napoletana con patate fritte – una cotoletta con salsa di pomodoro, prosciutto cotto, formaggio fuso e origano – può fare le veci di un piatto unico e provocatorio quanto l’azione personale di un trequartista in grado di sbloccare da solo la partita. Gli edonisti amanti dello spettacolo fine a sé stesso e del tunnel, potranno sempre puntare sulla lingua bovina “alla portoghese”, brasata con pomodoro peperoni e piselli, sui cappellacci o sorrentinos serviti con carne stufata, o tentare la conclusione da lontano con un brodetto di calamari e rane alla provenzale, dorate con aglio e prezzemolo.
Se prestate attenzione, verso lo scadere del tempo regolamentare – il fischio finale tarda sempre un’eternità ad arrivare – potrete scorgere una bottiglia gelata di Vecchio Amaro del Capo, tradizionale liquore calabrese, spuntare tra un mazzo di carte e un Fernet Branca: l’ha portata dall’Italia Nicolas, il maggiore dei quattro fratelli Higuain, l’unico che in campo ha raccolto l’eredità paterna, e si è piazzato in difesa, come Jorge, il capostipite. Occhi chiari, naso sottile, faccia da basco canaglia e sguardo picaro, Nicolas è cresciuto come Gonzalo sul parquet del Club Atletico Palermo, sotto la guida del paterno coach Alberto “Cacho” Tarzìa, una vita dedicata al nobile compito di insegnare a calciare il pallone ai più piccoli.
Potreste incontrarli riuniti a cena con gli amici di sempre, un pretesto per poi separare i tavoli e dar vita ad instancabili ronde di truco, il poker della pampa dove il successo, un po’ come nella vita e un po’ come nel futbol, si basa nel mentire e nel bleffare meglio degli altri: un movimento, una finta, uno sguardo ingannevole e il dribbling, o il “truco” – come si usa gridare a squarciagola – è fatto.
Il cameriere Claudio avanza ora con passo fiero, in mano un piatto di formaggio sormontato da una fetta di solida marmellata di batata: queso y dulce, il dessert preferito da Borges, che descriveva la Palermo di inizio secolo come terra di minacciosi compadritos e malevos esperti nell’arte dei pugnali. Non mollate proprio adesso che la vetta è vicina, non al cielo ma all’altare pagano che vi circonda, fatto di maglie un tempo sudate da Tevez, Riquelme, Ortega e Francescoli, alzate ora lo sguardo e i calici di Malbec. In caso di bisogno non siate timidi e concedevi un sorso si soda spruzzata con il sifone, come in quell’Italia degli anni ‘60 che Buenos Aires è ancora capace di evocare in certe notti stellate di primavera.
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