Come abbiamo già rammentato su queste pagine, il football moderno nacque nella seconda parte dell’800 in Inghilterra e da lì, attraverso marinai, militari ed emigrati britannici si propagò a macchia d’olio in tutto il mondo, dapprima in Europa poi in Sudamerica.
Se oggi, grazie alla globalizzazione e all’apertura integrale delle frontiere (accelerata dalla vituperata legge ‘Bosman’), il calcio si è spersonalizzato, pescando ormai in humus identico, in passato, parlare di scuola britannica, mitteleuropea, latina e sudamericana richiamava delle specificità evidenti, che affondavano le loro radici nelle differenze di storia, contesti sociali e conformazione fisica.
In Sudamerica il calcio arrivò al seguito degli inglesi che, esportando la loro contagiosa passione per il gioco, fondarono alcune delle squadre, destinate poi a fare la storia, ma, essendo l’America del Sud terra di grande emigrazione italiana, un grande contributo alla diffusione del gioco arrivò anche dai nostri connazionali che fondarono due dei più importanti club del continente: il Boca Juniors in Argentina ed il Palmeiras in Brasile.
Da quel ‘cosmopolita’ mix di influenze europee nacquero tre fra le scuole calcistiche più forti del mondo: argentina, brasiliana e uruguagia.
In piena espansione coloniale il calcio era un prodotto da esportazione alla stregua dei tessuti di Manchester, delle ferrovie, dei prestiti bancari e della dottrina del libero commercio, così furono gli inglesi a giocare le prime partite in Sudamerica: i cittadini di Sua Maestà, diplomatici, funzionari delle imprese del gas e delle ferrovie, furono i soci fondatori di tante formazioni locali. Non a caso la prima gara internazionale giocata in Uruguay, nel 1889, vide affrontarsi una squadra di inglesi di Montevideo contro una di quelli di Buenos Aires, pochi anni dopo, in Brasile, nel 1895, la scena si ripetè per un match tra i sudditi britannici della São Paulo Railway e quelli della Gas Company.
Non passò però troppo tempo prima che il gioco del pallone contagiasse anche gli indigeni, in primis i rampolli della borghesia agiata, che si dedicarono al calcio come oggi alcuni si dedicano al golf. Iniziarono così ad arrivare a Londra commesse per importare l’attrezzatura, nonché i manuali di gioco, e l’inglese era riconosciuto come la lingua ufficiale delle partite: «Il giocatore colpito poteva accettare le scuse del colpevole, sempre, e quando, le sue scuse fossero sincere e formulate in inglese corretto».
In quegli stessi anni nei Paesi latinoamericani del Mar dei Caraibi, quasi tutti sotto l’influenza nordamericana, si iniziava a prendere a colpi di bastone una palla ben più piccola della pelota: «I marines portavano quel bastone in spalla, insieme al fucile….e, da allora, il baseball è diventato per i caraibici quello che il calcio è per noi» ha scritto, assai efficacemente, lo scrittore uruguagio Eduardo Galeano.
Risale al 1893 la fondazione dell’Argentine Football Association, che, addirittura, non permetteva che si parlasse lo spagnolo durante le riunioni, mentre l’Uruguay Association Football League, che vide i natali nel 1900, fedele alla tradizione inglese, proibì, inizialmente, le partite alla domenica. La Federazione brasiliana fu l’ultima a nascere, nel 1914.
Lentamente, ma inesorabilmente, quello che era nato come un divertimento per i ragazzi bene della borghesia locale, iniziò a diffondersi per le strade ed i quartieri popolari che costeggiavano il Rio de la Plata. Così, come il tango, anche il calcio crebbe e progredì nelle periferie tra gli immigrati, i diseredati locali e i meticci, che provvederanno poi a plasmarlo in maniera inconfondibile e indelebile.
Il pallone diventa una sorta di oasi spensierata, laboratorio di un linguaggio universale che unisce i popoli trovando terreno fertile soprattutto tra i poveri che, per giocare, hanno bisogno solo della voglia e di uno straccio di pelota. Negli stadi di Buenos Aires e Montevideo nasce e si sviluppa così un nuovo stile, il ballo si mescola al gioco e viceversa, il cuoio non ci si limita a calciarlo ma lo si possiede, il palleggio diventa così un’arte sopraffina, una sorta di marchio di fabbrica del ‘futbol’ sudamericano.
Poco distante, in Brasile, il calcio lo si interpreta in un altro modo ancora, con le finte di corpo, che arrivano direttamente dalla “capoeira“, la danza guerriera degli schiavi negri e dei briganti che vivevano nei sobborghi delle grandi città, si pongono così le basi di quel ‘futebol bailado’ che tanti successi sarebbe stato destinato a mietere negli anni a venire.
Ben presto quello che era nato come passatempo raffinato per ricchi annoiati diventa passione palpitante per le classi popolari, tant’è che già nel 1915, sulla rivista Sport, di Rio de Janeiro, si poteva leggere: «Noi che abbiamo una posizione nella società siamo obbligati a giocare con un operaio, con un autista… La pratica dello sport sta diventando un supplizio, un sacrificio, giammai un divertimento». Forse, però, proprio il distacco dalle classi agiate permise al calcio di affermarsi e divenire lo sport più seguito del mondo.
Pur se non più praticato, tuttavia, il gioco del pallone continuava ad essere oggetto di dotte dispute tra intellettuali, per i conservatori esso divenne così testimonianza dell’inferiorità del volgo, della sua ignoranza e del suo istinto animalesco; mentre per i più ‘liberal’ il calcio assurse a “cavallo di Troia” della borghesia, che, attraverso di esso, cerca di deviare le energie rivoluzionarie delle masse. In tal modo si possono leggere le affermazioni di Rudyard Kipling che, nel 1902, si prendeva gioco delle «piccole anime che possono essere saziate dagli infangati idioti che giocano a pallone», e, qualche anno più tardi, del comunista Antonio Gramsci lo elogiava: «Questo regno della lealtà umana esercitata all’aria aperta».
Nei primi anni del Novecento, quando era il Metodo a farla da padrone, in Sudamerica si iniziarono a battere strade diverse che portarono ad un cammino e ad un’evoluzione originali. Mentre la scuola europea era portata alla ricerca di una maggiore velocizzazione del gioco, quella sudamericana puntava maggiormente a privilegiare la tecnica individuale, legandosi a figure in tal senso emblematiche quali l’uruguagio Andrade (la ‘maravìlla negra’), l’argentino Ferreyra (la ‘Fiera’) e il brasiliano Zizinho (‘O Mestre Ziza’).
Ogni epoca ha avuto il suo fuoriclasse sudamericano, spesso brasiliano, molti di essi nacquero poveri e trovarono nel pallone un simbolo di riscatto economico e sociale capace di liberarli dai bisogni e lanciarli nell’Olimpo degli dei mortali, con qualche eccezione, come Garrincha, che, nella povertà più assoluta ritornò, morendo in solitudine, quasi dimenticato. In Sudamerica il calcio ha rappresentato il mezzo più efficace e diretto di riscatto per neri, mulatti e creoli che venivano pesantemente discriminati da quella che in Brasile veniva definita ‘democrazia razziale’, una sorta di scala gerarchica della società, in cui i neri stavano in basso e i bianchi in alto.
Il campo rappresentò dunque una sorta di zona franca, di spazio libero, in cui poter lottare alla pari, bianchi e neri, magari nella stessa squadra. Nel 1916, in Argentina, si disputò la prima Coppa America, cui presero parte le quattro squadre allora affiliate alla Confederacion Sudamerica de Futbol, cioè Argentina, Brasile, Cile e Uruguay: evento davvero storico visto che è stata, in assoluto, la prima competizione per rappresentative nazionali. All’esordio l’Uruguay sconfisse per 4-0 il Cile: con doppiette di Piendibene (che non esultava mai dopo una rete, per non offendere gli avversari) e Gradin. Il giorno seguente, però, la delegazione cilena pretese l’annullamento della partita perché, a suo dire, l’Uruguay aveva schierato due africani: Isabelino Gradin, appunto, e Juan Delgado, entrambi discendenti da schiavi e nati in Uruguay: due veri fuoriclasse dell’epoca, che facevano dell’Uruguay l’unico Paese al mondo a schierare giocatori di colore in Nazionale.
Era nero anche il brasiliano Artur Friedenreich (figlio di un tedesco e di una lavandaia di colore) al quale, in carriera, vennero accreditati 1.329 gol. Per alcuni fu proprio lui a creare lo stile tutto brasiliano di giocare al calcio (grazie ad un suo gol contro l’Uruguay il Brasile si aggiudicò la terza edizione della Coppa America nel 1919).
La lotta contro la segregazione razziale nel ‘futbol’ sudamericano era però appena agli inizi, nel 1921, infatti, l’allora presidente del Brasile Epitacio Pessoa, ordinò che nessun giocatore di pelle scura prendesse parte alla Coppa America che si sarebbe giocata in Argentina, per ragioni di patrio prestigio. Vinse l’Uruguay che umiliò i brasiliani con un roboante 6-0. Essere anche solo mulatto nel calcio brasiliano non era facile: Friedenreich entrava sempre in ritardo in campo per stirarsi i capelli, mentre il terzino della Fluminense, Carlos Alberto, si schiariva la faccia con polvere di riso prima di mettere piede sul terreno di gioco.
Loro furono comunque i pionieri di un modo di giocare e di essere interpretato, nei decenni a venire, da giocatori come Domingos da Guia, Leonidas, Zizinho, Garrincha, Didi, Pelé, Junior, Romario, Ronaldo, Rivaldo, Ronaldinho, nessuno di pelle bianca, tutti autentici fenomeni!
Nel 1924 l’Uruguay vinse a Parigi le Olimpiadi, fu in questa occasione che l’Europa scoprì il calcio sudamericano e uno dei suoi più grandi interpreti, José Leandro Andrade: classe, tecnica, velocità e forza fuse in un unico giocatore, che, in una delle partite di quel torneo, attraversò mezzo campo con il pallone sulla testa. Fu la stampa francese a dargli il soprannome che ne segnerà la carriera: «la meraviglia nera», ebbene, il primo idolo internazionale del calcio fu dunque nero, sudamericano e di origini povere! Quella fortissima nazionale vincerà anche le Olimpiadi di Amsterdam nel 1928 e il primo Campionato del Mondo due anni dopo. Un aneddoto divertente riguarda proprio le Olimpiadi di Parigi del 1924, alla vigilia del match Uruguay-Jugoslavia, gli slavi vollero spiare i suadamericani in allenamento, i giocatori della “Celeste” se ne accorsero e iniziarono a calciare il terreno, mandando il pallone alle stelle, scontrandosi gli uni con gli altri. Le spie dissero: «Fanno tenerezza, questi poveri ragazzi venuti da tanto lontano…». Il giorno dopo, sul campo, la Jugoslavia perse 7-0.
Negli Anni ’30, nel ‘futbol’ sudamericano, si andò affermando il professionismo, l’Italia, già a quel tempo, era una tra le mete più ambite: la terra degli ‘oriundi’ per tutti coloro, ed erano tantissimi, che avevano i loro avi nel Bel Paese e, in caso contrario, a Roma c’era poi chi era in grado di fabbricarglieli su misura. Era questo un modo per impaurire i club che, per non perdere i loro fuoriclasse, allargavano i cordoni della borsa. Così, sotto questa spinta (pericolo) nel 1931 diventa professionistico il calcio argentino, nel 1932 quello uruguagio e nel 1934 quello brasiliano, da quel momento i calciatori diventeranno così lavoratori con un contratto a vita che solo il club aveva il potere di rescindere o di cedere a un’altra squadra. Due le ore obbligatorie di allenamento alla settimana e 5 i pesos di multa per un’assenza ingiustificata. Condizioni che tuttavia non impedirono a molti campioni di sbarcare in Italia e fare la fortuna di club e Nazionale azzurra.
Poi arrivò la seconda guerra mondiale con il suo carico di lutti, orrori e distruzioni, ed anche il calcio entrò in un’impasse da cui sarebbe risorto al massimo splendore nel 1950 quando, con il mondiale di calcio, organizzato in Brasile, nacque il calcio contemporaneo.
In quell’occasione si originò una nuova leggenda, quella del ‘maracanazo’, quando l’Uruguay, sotto 1-0 (rete di Friaca), capovolse il risultato con due reti, prima di Schiaffino, poi di Ghiggia, aggiudicandosi il suo secondo titolo mondiale e gettando un intero paese nella disperazione, ma quella è un’altra storia…
fonte immagine: acerrvo.estadao.com.br