Insicurezza sociale, instabilità economica e inflazione alle stelle. E allora sono sempre di più i professionisti argentini che decidono di emigrare all'estero. Oltre alle motivazioni interne al loro Paese ne esistono altre più personali, legate alla volontà di crescita personale e professionale e all'offerta, anche economica, molto spesso superiore a quella cui potrebbero puntare in patria. Questo tipo di decisioni implicano un gran numero di variabili legate non solo alla qualità del lavoro, ma anche al Paese in cui ci si trasferisce, alla sua cultura, e impongono scelte importanti, come l'allontanamento dalla famiglia e dagli amici.
Dopo una laurea in Economia all'università e diversi anni di esperienza in una multinazionale argentina, Ezequiel ha scelto di andare via. «In Brasile mi offrono uno stipendio più alto di oltre il 40 per cento senza contare i benefit e la possibilità di risparmiare in dollari», racconta. Il caso di Ezequiel, però, non è certo l'unico. La sua storia è un po il termometro del momento che sta vivendo il mercato dei dirigenti argentini. L'attuale contesto politico-economico, infatti, spinge i manager a guardarsi intorno e cercare posizioni aperte nelle imprese internazionali. Si tratta di un fatto nuovo per questa categoria, meno toccata, in passato, dalle cicliche crisi economiche del Paese, e per questo più restia a emigrare.
All'interno di questo contesto, i manager, non sono interessati solo a spostarsi negli Stati Uniti o in Europa, ma optano spesso per alcuni Paesi latinoamericani come Uruguay, Cile, Brasile, Colombia e Perù.
“Molti manager sotto contratto nelle loro imprese da più di quattro anni si trovavano a dover cambiare di Paese obbligatoriamente e cercavano di evitarlo”, ci racconta un esperto in selezione di alti direttivi di una società di consulenze aziendali che preferisce mantenere l'anonimato. "Da un anno e mezzo a questa parte, però, tutto è cambiato. Se hanno l'appoggio della famiglia non dubitano. Accettando possono risparmiare in moneta forte e non c'è promozione che li convinca a restare", conclude il consulente citando nomi e cognomi di diversi casi che si sono trasferiti all'estero negli ultimi mesi.
La società di consulenza uruguayana Advice, ad esempio, segnala che nel 2009 le richieste di trasferimento oltre il Rio de la Plata da parte di argentini erano meno di 300, mentre oggi superano le mille. E ogni volta che viene pubblicata una ricerca per un incarico dirigenziale, sono sempre più gli argentini si offrono. “I candidati che si propongono raccontano che in Argentina si convive con un'insicurezza crescente, mentre gli alti livelli di inflazione bloccano i salari spingono molte grandi aziende internazionale ad abbandonare il Paese. Tra gli altri problemi menzionati, poi, ci sono l'impossibilità di risparmiare in dollari, i blocchi alle importazioni e le difficoltà per ottenere valuta estera per fare dei viaggi. Per queste ragioni sono in molti a tenere costantemente sotto controllo le opportunità lavorative all'estero. Nei casi più estremi, sempre secondo i dati di Advice, la prospettiva alternativa è quella di perdere il lavoro ed è quindi comprensibile come oggi il 100 % dei candidati argentini sia molto più aperto a un trasferimento all'estero”.
Un altro aspetto che contribuisce a spiegare la grande apertura verso l'emigrazione all'interno del continente sudamericano dei manager argentini è costituita dalle grandi difficoltà per gli amministratori delle imprese di trovare dirigenti e specialisti, soprattutto nel settore tecnologico, come confermato da uno studio pubblicato dalla International Data Corporation (IDC), azienda statunitense leader nelle ricerche di mercato.
Tra le destinazioni sudamericane, nemmeno a dirlo, la più gettonata è il Brasile. La ragione principale, oltre alla crescita economica generale e impetuosa del Paese del carnevale, va ricercata anche negli altissimi salari: nella capitale economica del Paese, San Paolo, un manager guadagna quanto e più dei suoi colleghi di New York, Londra, Hong Kong e Tokyo.
Secondo l'agenzia di talent scouting Dasein Executive Search, già da qualche anno un consigliere delegato di San Paolo guadagna circa 600 mila dollari all'anno, contro i 570 mila che otterrebbe a New york e i 250 mila di Hong Kong. Mentre il salario annuale di un manager si aggira sui 240 mila dollari, contro i 200 mila dei sui colleghi nella grande mela.
Un altro dei dati condivisi sia dagli esperti del settore che dagli stessi manager emigrati è quello relativo alla volontà di rientrare in Argentina dopo un periodo di lavoro all'estero. La quasi totalità degli intervistati, infatti, racconta di essere partita con l'idea di passare all'estero dei periodi di uno o due anni, ma che poi, leggendo dai giornali che la situazione in patria rimaneva difficile, aveva deciso di estendere il periodo di permanenza all'estero sempre più a lungo, fino a scartare del tutto la possibilità del rientro.
Del resto, come conferma un'inchiesta realizzata dalla società internazionale Price Waterhouse (PWC), il 97% dei manager argentini vede l'inflazione come il problema principale del Paese, mentre il 77 per cento degli industriali manifesta dubbi sulle risposte offerte finora dal Governo di fronte al deficit fiscale e al carico di debiti. La ricerca di PWC fa parte di una più ampia investigazione sulle attuali tendenze fra i dirigenti delle aziende più importanti a livello mondiale. L'inchiesta, presentata a Buenos Aires nel corso congresso annuale dell'Istituto Argentino dei Manager Finanziari (IAEF), sottolinea anche che oltre all'inflazione i manager sono fortemente preoccupati dalla iper-regolamentazione e dalla corruzione.
Al congresso sono intervenuti diversi economisti, tra i quali Miguel Bain dell'Università di Buenos Aires e Ricardo Arriazu, ex membro del Fondo Monetario Internazionale.
Per il primo il PIL argentino continuerà a crescere del 4% nel 2013 per effetto di alcune congiunture, ma la media prevista per i prossimi due anni si abbasserà al 2%. Per Arriazu, invece, il tipo di cambio in vigore oggi nel Paese assomiglia molto a quello degli anni '90, epoca in cui chi puntò sull'Argentina finì col sentirsi truffato. Il presidente dell'Istituto di credito Banco Ciudad, Federico Sturzenegger, nel suo intervento ha invece posto l'accento sul fatto che «sono ormai 17 mesi che l'economia argentina è in fase di stallo». Posizione confermata anche dal direttore di JP Morgan, Vladimir Werning, secondo il quale la performance dell'economica locale e la diminuzione della disoccupazione degli ultimi anni non sono di per se dei dati straordinari ma rappresentano un fenomeno che si è riscontrato in tutta la regione. Il problema reale, sempre secondo Werning, sono gli effetti secondari del blocco dei cambi valutari: Se in prima battuta la misura aveva permesso di diminuire la fuga di capitali nel 2012, è anche vero che poi il tempo guadagnato non è stato utilizzato per correggere il tiro e adesso i costi vivono una fase di aumento senza controllo.